di Luca Filidei
Quanto è cambiato il surf dai tempi di Greg Noll? Tantissimo. E non solo per l’avanzamento tecnologico che, come sappiamo, ha investito questo sport, ma anche per un nuovo approccio stilistico capace di rivoluzionare il concetto di “surfare un’onda”. Già tra gli anni Sessanta e Settanta gli australiani (e in particolare i Bronzed Aussies) avevano stravolto il classico approccio degli hawaiani nel praticare il surf. Eh sì, almeno per quell’epoca (e per loro), goodbye longboard. È bene ricordarsi che alle Hawaii non la presero per niente bene, eppure il percorso innovativo proseguì imperterrito, riuscendo a cambiare la percezione di questo sport attraverso manovre che solo pochi anni prima erano praticamente impensabili. Titoloni come “Heroes of the Surf” e “Surf: Australians Against the Sea” facevano bella mostra di sé sulla letteratura di quel periodo, un notevole cambiamento rispetto al passato. Ma ovviamente non ci si fermò lì. Il surf, sempre più globale, si prestava perfettamente a nuove interpretazioni e contaminazioni. Chi diceva ad esempio che quelle strane manovre aeree tanto in voga nello skate e nello snowboard non potevano essere replicate tra le onde?
Un fine teorico avrebbe risposto che lo sosteneva la fisica. O meglio, che nel surf tutto sarebbe stato molto più difficile. Per prima cosa, a differenza dello snowboard, la tavola da surf non è agganciata ai piedi. E poi, il fatto più importante: le onde si muovono. C’era una ragione se nessuno, ad eccezione di un manipolo di pionieri (Kevin Reed, Davey Smith, Matt Kechele e Larry Bertlemann), aveva mai tentato questa manovra. Per certi versi era come il triplo axel del pattinaggio. Grado di difficoltà: altissimo. Indice di riuscita: bassissimo, con un 99 per cento di wipeout (ok, esagero, ma ci siamo capiti). Ora però gli air, sebbene ancora molto rischiosi in termini di punteggio, fanno ampiamente parte del surf professionistico. Basta guardare la Brazilian Storm e a quanto il successo dei vari Filipe Toledo, Gabriel Medina e Italo Ferreira sia strettamente legato alla capacità di eseguire tali manovre. E, invertendo la prospettiva, a quanto sia difficile vincere determinate tappe del tour senza praticarle. Lo spettacolare dieci ottenuto da Toledo a J-Bay nel 2017 ne è un esempio. Per vincere dovevi per forza fare qualcosa di meglio rispetto a quei due alley-oop.
Ma come si è arrivati a questo? Introdurre gli air tra i pro è stato così facile e spontaneo? No, non proprio. Il primo a sperimentarli, dopo i pionieri di cui si parlava sopra, fu Martin “Pottz” Potter. Per lui, nel pieno degli anni Ottanta, quelle manovre altamente pericolose valevano tutto il rischio. E infatti creò una nuova attitudine, esasperando ciò che Reed e compagni avevano fatto alla fine del decennio precedente. Pottz era capace di compiere air più alti di chiunque altro e, con coraggio, iniziò a considerarli come delle potenziali alternative da sperimentare a livello pro. Detto ora, lo so, sembra strano, ma negli 80s tutto era molto diverso. Basti pensare che nel 1983, all’età di diciassette anni, lo stesso Pottz sosteneva che due leggende come Tom Curren e Mark Richards adottassero un “approccio conservativo”. E non si fermava lì, aggiungendo: “Cerco di fare grandi manovre e prendermi dei rischi. Semplicemente non riesco ad approcciarmi conservativamente a un’onda. Non fa per me. Se esco là fuori e non faccio almeno un air non sono felice”. Un metodo che però non ebbe un grande seguito. Come già scritto, replicare tale manovra nel surf non era per nulla semplice, nemmeno per i più grandi di questo sport. Certo, le onde adatte per gli air non mancavano, ma per il resto l’efficacia continuava ad essere considerata troppo bassa.
Nel professionismo una manovra incompleta non portava un grande score, quindi perché rischiare? Tom Curren, Tom Carroll e Mark Occhilupo tra gli altri restarono fedeli allo stile “classico”, lasciando a Pottz quelle strane manovre. Questa divisione – tra “aerial surfing” e “competitive surfing” – fu ancora più evidente nel 1989, quando lo stesso Potter vinse il Tour adottando uno stile “conservativo”. Il messaggio era chiaro: se ambivi a diventare campione del mondo dovevi surfare in modo classico, gli air era meglio lasciarli perdere.
Ma è possibile immaginare un arrendevole Pottz? Certo che no, e infatti i suoi insegnamenti erano già stati colti da due grom di San Clemente. Lui nella Orange County ci aveva surfato tutta l’estate 1985 compiendo air a tutto gas. Com’era prevedibile aveva subito molti wipeout, ma quelle manovre, anche se spesso non riuscite, avevano colpito profondamente due giovani surfisti come Matt Archbold e Christian Fletcher. Nel panorama surfistico non c’era niente di simile. Pottz del resto rappresentava il “ribelle”, il personaggio più distante da quel surf mainstream che ormai aveva dilagato.
I due grom iniziarono così a replicare le sue acrobazie. A loro interessavano gli air, non il mondo pro. Stabilirono infatti una sorta di sottocultura, una specie di “sport dentro lo sport”, allo stesso modo di quello che aveva caratterizzato il noseriding diversi anni prima. Archbold, secondo Matt Warshaw, vantava lo stesso genio di Curren e Wayne Linch. Non perseguiva gli air in modo fanatico, il suo stile era completo, ma la sua mentalità lontana da quella dei pro e i problemi di droga non gli consentirono di fare il grande passo. Anche Christian non seguì un percorso ordinario. Come molti di voi sapranno proveniva da una famiglia decisamente importante nel mondo del surf (suo padre è la leggenda Herbie Fletcher), ma poi la sua strada prese una piega personalissima. Lasciata la scuola investì moltissimo tempo nello sperimentare gli air, diventando in pratica il vero successore di Pottz. Il suo nome divenne sinonimo di quelle manovre. I magazine iniziarono a dedicargli pagine su pagine. Ebbe persino un ruolo nella creazione di un lessico ad hoc e poi divenne un leader dell’anticonformismo, con tanto di mohawk e comportamento da rocker.
I pro ovviamente non stettero a guardare. Nel 1990 alcuni di loro inviarono addirittura una lettera di protesta a Surfer e Surfing, esponendo la loro frustrazione nel vedere tanta attenzione rivolta a un surfista che nessuno aveva visto al Tour. Shaun Tomson disse persino che gli air “erano la più grande bufala mai perpetrata nel surf” e in effetti i continui wipeout – anche di Fletcher, Archbold e Potter – non aiutavano, stabilendo un grado di successo di circa il 50 per cento. Le critiche si fecero sempre più aspre e all’inizio degli anni Novanta la moda sembrava essere già passata.
Ma a riprendere il fil rouge iniziato da Pottz fu (che strano) Kelly Slater. La sua convincente vittoria al Body Glove Surf Bout 1990 nello spot di Trestles convalidò l’efficacia degli air, utilizzati da The GOAT come un’arma per scalare il ranking dei professionisti. Ogni tre o quattro onde ne compieva uno, suscitando finalmente l’apprezzamento tanto cercato da Potter negli anni Ottanta. Kelly, sostenuto anche dallo specialista degli air Matt Kechele, stava aprendo una nuova strada, inserendo queste manovre in modo organico all’interno di varie ride. I tutorial in VHS delle acrobazie di Slater, Flatcher e Archbold cominciarono a circolare tra gli appassionati, portando molti surfisti della nuova generazione a includere gli air nel loro repertorio. Alcuni di loro, un manipolo di surfer provenienti da California, Australia e Hawaii, fondarono persino un club di specialisti dove si sperimentavano inversions, rotations, flips, “Superman” airs… rispettando la regola che, se si poteva fare su un half-pipe, lo si poteva replicare anche nell’oceano. Del resto, a metà degli anni Novanta tutto era cambiato.
L’epoca post-Fletcher era ben più motivante dal punto di vista commerciale, con gli “air” che riempivano le pagine dei magazine nel 1995. L’anno successivo Surfing organizzò addirittura un contest dedicato a queste manovre, l’Airshow Competition Series, che poi venne imitato anche da Quiksilver nel 2002 con l’Airshow World Championships vinto dall’hawaiano Randy “Goose” Welch. Il montepremi di 20.000 dollari contribuiva a rendere gli air ormai parte del mondo professionistico, anche se ancora relegati in quel mondo “ribelle” che sembrava limitarli. Ma poi, grazie a personaggi come Josh Kerr, Jason “Ratboy” Collins, Joe Crimo, Josh Sleigh, Aaron “Gorkin” Cormican ed Eric McHenry si giunse con pazienza all’attuale situazione. Sì, gli air fanno ora parte della spettacolarità del Championship Tour. È stato un percorso tortuoso, per nulla facile, persino deleterio per alcuni. Quindi alla prossima acrobazia da videogioco dei vari Griff o Gabe, ricordiamoci da dove è partito tutto questo, magari pensando a Martin Potter e alla sua incredibile scommessa vinta.