di Nik Zanella
Quando si parla di storia del surf, non ci sono molti luoghi più periferici dell’Italia. A noi mediterranei, cresciuti nella suburbia mondiale del surf, non è concesso nessun mito fondante, nessun Duke Kahanamoku a cui dedicare una statua, un francobollo o un ritratto ufficiale. La nostra mitopoiesi si fonda su episodi effimeri. Rudy Newmann, un direttore d’albergo tedesco di base a Cervia, aprì la strada alla fine degli anni Cinquanta, poi Peter Troy, explorer australiano, fece tappa in Liguria nel 1963. Entrambi vennero, surfarono e se ne andarono senza fare proseliti.
Il waveriding doveva essere reinventato localmente, adattato a uno degli specchi d’acqua più imprevedibili e affascinanti in cui un surfista possa immergere le proprie pinne. È successo negli anni ’70, quando una generazione di visionari ha preso in mano la situazione, ha esplorato 8.000 km di costa esposta, creando uno stile di vita, il nostro, quasi da zero. Fracas, Baroncelli, Forti, tutti i pionieri del nostro sport erano, negli occhi dei loro contemporanei, tutt’altro che eroi. Una manica di ‘beautiful losers’ a cui Vincenzo Ganadu, surf artist sardo di fama mondiale, ora rende omaggio.
Del resto questo è l’ambiente in cui è cresciuto. Si è fatto le ossa sugli swell occidentali che attraversano il Mediterraneo in pieno inverno, è cresciuto respirando l’aria cristallina che segue le ‘botte di mistral’, meravigliandosi ad ogni nuovo point destro che la sua crew scopriva sulla costa settentrionale sarda.
Il surf qui negli anni ’80 e ’90 era ancora totalmente underground. Guardavamo la direzione del vento, il colore delle nuvole, aprivamo una mappa e partivamo. Eravamo fuoricasta, esploratori senza bussola: abbiamo trovato la maggior parte degli spot… perdendoci” – commenta Vincenzo su quei primi anni – “Le previsioni erano quasi inesistenti, quindi ogni onda perfetta, ogni surfata ci sembrava unica. Qualcosa di epico su cui scrivere o, nel mio caso, dipingere”.
Nell’era pre-internet, le onde si materializzavano all’improvviso, fugaci epifanie destinate a durare pochi giorni, a volte solo ore, come una sorta di visioni mistiche. Il legame che creavano tra i pochi locali disposti a inseguirle è qualcosa che non ho incontrato in nessuno dei miei viaggi. Questo stoke è ciò che vedo nella sua Arte ed il motore primo dietro la sua ultima fatica. Ventitré ritratti 150×120, acrilico su tela.
Si noti che sto usando la A maiuscola in Arte.
Sono cresciuto in un ambiente artistico tradizionale, quasi reazionario” – ricorda – “Ho iniziato a disegnare all’età di sei anni, per lo più a matita e pastelli, esercitandomi sulle forme anatomiche finché la mia tecnica è diventata quasi fotografica, eccessivamente realistica. Poi tutto è cambiato quando ho conosciuto Pinuccio Sciola, artista sardo di fama mondiale, che mi ha accolto nel suo laboratorio e mi ha insegnato a ridurre l’arte all’essenziale. Come identificare le linee di forza e la composizione corretta, eliminando tutti i dettagli. Le mie pennellate sono diventate più larghe, più decise. Ho smesso di sfumare i colori, niente più contorni. È stato Pinuccio a spingermi a dipingere onde. Arrivavo sempre in ritardo a lezione quando c’era una mareggiata. Sapeva che era quello che amavo”.
Affinando la sua tecnica nelle accademie d’arte di Sassari e Bologna, Vincenzo Ganadu è entrato in contatto con i pilastri dell’arte europea. Non sono un critico, ma nelle sue opere vedo il romanticismo di William Turner fondersi con la razionalità del movimento futurista dei primi del Novecento, il tutto immerso in una fresca luce mediterranea. I toni neri della roccia basaltica, i verdi profondi dei boschi di querce, i gialli accecanti delle ginestre selvatiche, ma soprattutto le innumerevoli sfumature che le acque sarde sanno produrre. Qui il tempo cambia in fretta. L’acquamarina caraibica delle lagune riparate può trasformarsi rapidamente in quel ‘mare scuro come vino’ così mirabilmente cantato da Omero nell’Odissea.
“Come surfista ho avuto la fortuna di navigare in California, Australia, Perù e Hawaii nei primi anni ’90, portando con me i miei pezzi più recenti” racconta Vincenzo “Viaggiare era estremamente costoso per noi sardi. Barattavo le mie opere con l’alloggio o il cibo. Poi ho capito che quelle tele avevano un valore oltre il denaro, parlavano un linguaggio che i surfisti capivano subito a prescindere dalle barriere linguistiche“.
Da allora Vincenzo Ganadu ha tenuto mostre a Laguna Beach, Honolulu, Nusa, Biarritz e Lima. La Warner Bros ha acquistato i diritti di alcuni suoi dipinti per utilizzarli come interni nei set cinematografici. Una delle sue tele è diventata il poster del Nusa Longboard festival 2008, scelto da Phill Jarratt, fondatore di Tracks Mag e curatore del evento. Eppure continua a essere l’artigiano più umile che si possa immaginare, lavorando nella sua fattoria artistica a due passi dal mare e insegnando arti visive in una scuola superiore.
Nella sua ultima esposizione, Storia del surf Italiano, Vincenzo Ganadu rende omaggio alle sue radici, a quella generazione di visionari che ha reso possibile il surf nel Bel Paese. Quegli aneddoti scollegati tra loro, le avventure dei primi surfisti, spesso raccontate in un parcheggio o di fronte ad una birra, diventano ora narrazione coerente in una serie di opere in esposizione a Cervia (Ravenna), dal 13 al 29 settembre a due passi dalla prima spiaggia surfata in Italia. Al evento, oltre che a molti pionieri italiani, sarà presente anche Rudy Neumann, probabilmente il primo a cavalcare un’onda in Italia.
Conosco e scrivo di Vincenzo da oltre vent’anni. Ma in questo evento, e nel sontuoso catalogo che lo accompagna, la sua arte trova, forse, il suo significato più profondo. Un linguaggio comune che non ha bisogno di parole. Una linea diretta tra la periferia mediterranea e gli epicentri globali della cultura del surf.