Nell’ultimo articolo sul localismo concludevo dicendo che “il mare è di tutti, ma entro certi limiti”. Le limitazioni di cui parlavo non sono stabilite da nessuna autorità giudiziaria o da qualche istituzione, ma derivano dalle poche regole che tutti conoscono nel mondo del surf. Anche un neofita facendo leva sul buon senso può arrivare a capire quali siano i principi su cui si fonda la convivenza in acqua.
L’intento di questo nuovo articolo sarà quello di analizzare due nozioni che spesso entrano in gioco nelle varie dispute tra outsiders e locali di uno spot: possesso e proprietà. In altri termini, è facile che chi è local si senta legittimato ad abusare del suo status, come se fosse il proprietario di quello specchio d’acqua e quindi della relativa onda. Ricorrendo sempre al pensiero di filosofi moderni, andremo a setacciare i due concetti appena presentati contestualizzandoli nella nostra realtà.
Che cos’è la proprietà?
La nozione di “proprietà” è comune a tutte le ideologie socialiste che si sono sviluppate dalla rivoluzione francese in poi. E sarà proprio un filosofo transalpino ad accompagnarci in questo viaggio, nello specifico Pierre-Joseph Proudhon. Il pensatore vissuto nell’800 divenne famoso per aver descritto “la proprietà è un furto”, un’affermazione forte ed apparentemente controversa dietro cui però si nasconde un ragionamento ben definito.
Proudhon sostiene che il concetto di proprietà appaia ai nostri occhi come qualcosa di naturale: un diritto assoluto, un po’ come il diritto alla vita. Provate però a domandarvi che cosa sia effettivamente e se sia eticamente, politicamente e socialmente funzionale al benestare di tutti. Immagino che vi ritroverete in difficoltà nel darvi una risposta precisa, in quanto di per sé il concetto di proprietà è molto contraddittorio.
Storicamente la filosofia si è servita di due principali argomentazioni per legittimare il possesso di qualcosa da parte di un individuo. La prima mira a collegare proprietà e lavoro tramite il principio di inviolabilità della persona. In termini più democratici, noi in quanto unici padroni del nostro corpo, saremmo giustificati nell’acclamarci proprietari di qualcosa, essendo ciò il risultato del lavoro (anche fisico) che facciamo per produrlo.
La seconda legittima il diritto di proprietà tramite il concetto di occupazione, che forse è quello che più ci interessa. In questo caso saremmo legittimi proprietari di uno spazio solo dal momento in cui possiamo provare che ne siamo fisicamente in possesso. Insomma…occupandolo! Un punto debole di questa prospettiva, però, riguarda la necessità di un riconoscimento di altri: il diritto a occupare sarebbe quindi frutto della tolleranza altrui.
Essere local vuol dire essere il proprietario dello spot?
Ora, proviamo a inquadrare il breve discorso appena fatto in una cornice surfistica. Ma prima un disclaimer: ciò che voglio delegittimare non è il localismo in sé, bensì chi si arroga il diritto di cacciare qualcuno da uno spot sostenendo sia “suo”. Quello non è localismo, è solo un banale atto di prepotenza.
Troppo spesso sento di surfisti che difendono il loro homespot come fosse una proprietà privata. Al momento spot privati in Italia non penso esistano, all’estero invece sì. Mi viene in mente il caso della sinistra di Lohis alle Maldive, venduta dal governo centrale al resort che ha sede sull’isola di Hudhuranfushi. Tuttavia, finché è un’imposizione legale a vietarci di surfare, possiamo combattere tramite le opportune sedi e farci sentire come community. Sono sicuro che saremmo capaci di protestare uniti e compatti. Quando invece è la presunzione di un gruppo di persone, dei privati, a vietarci di surfare un’onda, allora le cose cambiano.
Torniamo all’obiettivo che ci eravamo preposti. È inevitabile, quando si frequenta molto uno spot, sentirsi “a casa” o in una posizione più elitaria rispetto a chi entra per la prima volta nel nostro picco preferito. Tuttavia, non bisogna sfociare in comportamenti esagerati perché, oltre ad avere torto, si compromette il benestare e il morale di tutti in acqua. La domanda quindi è: chi si proclama “local” di un’onda, atteggiandosi come il proprietario, è legittimato nel farlo?
Partiamo dalla prima argomentazione che ho evidenziato nell’excursus filosofico. Darle un look surfistico non sarà facile. Per quanto mi riguarda, possiamo inquadrare il discorso in due modi. In senso stretto, potremmo legittimare chi dice “questo picco è mio” nel caso in cui sia colui o colei che effettivamente ha costruito quello spot. Se fosse così, banalmente gli operai e tutto il team scientifico che ha curato la realizzazione del reef artificiale di Palm Beach, in Australia, potrebbero ritenersi proprietari dell’onda.
In senso lato, giustificherei chi si proclama proprietario di un’onda dal momento in cui si prende cura e rispetta il piccolo ecosistema che circonda lo spot. Dal raccogliere i rifiuti a monitorare la fauna marina: non vedo motivazioni per cui chi svolge qualsiasi attività del genere non si possa ritenere più local di altri.
Passiamo ora alla seconda argomentazione utilizzata in precedenza. Anche qui, possiamo interpretare il discorso filosofico in chiave surfistica da due punti di vista differenti. Il primo, quello più assurdo, consiste nel legittimare chi si sente proprietario del suo picco preferito solo nel caso in cui occupi, sempre e comunque, quello specchio d’acqua. Sull’oceano forse sarebbe quasi possibile data la frequenza delle onde, ma è una visione fantascientifica che non potrà mai concretizzarsi.
Il secondo, è il classico motivo per cui il nostro cervello ci porta a identificare qualcuno automaticamente come local di uno spot. “Guarda quel biondo, è sempre in acqua e lo vedo spesso su un’onda, secondo me è un local”… sbaglio o tutti facciamo questo tipo di ragionamento anche involontariamente? Il fatto che qualcuno abbia imparato a surfare e sia cresciuto in un determinato posto, però, non è necessario per proclamarsi proprietari dell’onda in sé. A differenza, spesso e volentieri non è il certificato di residenza a legittimare certi comportamenti egoisti, bensì il timore di dar fastidio e la tolleranza altrui.
Arrivati a questo punto, tiriamo le somme. Come avete visto, il concetto di proprietà cade dal momento in cui lo indaghiamo più a fondo. Approfondito dal punto di vista surfistico poi è ancora più fragile. Come ho detto nell’intro, quello che voglio delegittimare non è il localismo in senso assoluto, bensì la prepotenza e l’egoismo delle persone. Nessuno, a meno che non si compri uno spot, si potrà mai proclamare proprietario di quello specchio d’acqua. A permettere a certi individui di comportarsi così saranno sempre e solo gli altri, noi o voi. E come in cento tollerano l’atteggiamento sbagliato di uno, gli stessi potranno far sì che quell’uno non si comporti più così.