Sappiamo che è necessario dare una svolta green alla surfing industry, ma personalmente non sapevo che per produrre una tavola da surf viene emesso CO2 pari a quello che una macchina emette ogni volta che percorre 3500 km. È tanta roba. Ma potreste benissimo rispondermi che per andare a surfare in Italia 3500 km mi capita di percorrerli in 1 mese. È vero, anche questo è un fatto inequivocabile. Almeno però l’industria dell’automotive, con un altro giro d’affari ovviamente, è sulla strada verso la riduzione dei consumi. Per la sostenibilità nel surf cosa stiamo facendo?
Intanto bisogna capire. Per estrapolare i dati delle emissioni di CO2 riportati in apertura ho studiato una ricerca dell’Università di Wollongong, in Australia, una pubblicazione del 2017. Dopo aver intervistato 36 produttori di tavole da surf tra Australia, California ed Hawaii, gli autori della ricerca Gibson e Warren hanno potuto elencare i motivi per cui la transizione della surfing industry verso metodi di produzione e materiali più sostenibili risulti ancora così difficile.
Il primo, particolare e non così immediato motivo, affonda le radici nell’origine della produzione di tavole da surf in serie. Negli anni ’80 il surf ha cominciato a prendere le somiglianze di un business globale. Le imprese che producevano tavole si sono trovate da essere piccole realtà localizzate a diventare entità internazionali obbligate per sopravvivere a soddisfare una richiesta crescente. Anche quelle che oggi sono le più grandi aziende del settore, nate intorno a shaper di successo, hanno iniziato da un capannone e dei materiali arrangiati. Non è mai esistita nel dna di queste imprese l’abitudine a stare dietro a certificazioni e regolamentazioni ambientali. La crescita delle case di produzione di tavole da surf è stata spesso incontrollata e selvaggia.
Il secondo motivo dipende dalla controparte, i surfisti. Nonostante un’osteggiata attenzione per l’ambiente, i surfisti continuano a preferire la performance garantita dai materiali tradizionali alla sostenibilità nel surf.
Il terzo motivo dipende dalla poca chiarezza delle normative che si accavallano ai vari livelli degli stati e delle regioni in cui vengono prodotte le tavole.
Ma quanto inquina realmente una tavola?
Lo studio più affidabile, citato nella ricerca dell’Università di Wollongong, è stato condotto dalla California Berkeley University ed attesa che per produrre una tavola vengono emessi mediamente 170 kg di CO2. Se invece facciamo i conti sull’intero ciclo di vita del prodotto tavola da surf, prendendo ad esempio uno shortboard prodotto negli Usa, il costo per l’ambiente è pari a 272 kg di CO2. E stiamo parlando soltanto di una tavola. Sopraggiunge poi il problema dell’usura delle nostre tavole, che se usate in maniera continuativa iniziano ad accusare il colpo dopo 2, 3 anni. Ne risente anche la performance, oltre che l’aspetto estetico (le tavole si ingialliscono) che comunque rimane fondamentale agli occhi del surfista.
Andando a dissezionare gli aspetti che contribuiscono ad incrementare l’impronta ambientale di una tavola da surf troviamo al primo posto il poliuretano, comunemente detto PU, il materiale con cui vengono costruiti i pani o blanks da cui poi viene modellata la tavola. Il poliuretano, che è un derivato del petrolio, pesa per il 25% del totale. Il passaggio successivo, la resinatura della tavola, porta il 22% delle emissioni totali. La vetroresina è responsabile per il 5%. Il resto dei costi ambientali possono essere rintracciati nella gestione dei rifiuti, spesso fai-da-te e poco consapevole, in parte minore (a differenza di quanto venga raccontato) nel trasporto della tavola dalla sede di produzione al punto vendita, ed infine nel deterioramento che la tavola subisce a fronte dell’utilizzo in mare. La morale è che anche mentre surfi stai inquinando.
La strada verso la sostenibilità nel surf sembrerebbe senza uscita, ed in parte francamente lo è, ma negli ultimi mesi siamo entrati in contatto diretto con una realtà che sta promuovendo soluzioni per porre fine al problema. È Ertha Surfboards, startup con sede in Galizia i cui co-fondatori sono per la maggioranza italiani. Mettendo insieme esperienze e capacità in ingegneria, architettura e machine learning i ragazzi di Ertha sono riusciti ad inventare una shape machine che tira fuori una tavola già pronta per la fase di resinatura. Solitamente invece dalle shape machine tradizionali esce un pre-shape, una tavola imperfetta e che necessita di correzioni da parte di uno shaper umano.
La cosa più importante però ai fini dell’impatto sull’ambiente è che, oltre a diminuire gli sprechi e la dispersione di materiali inquinanti, Ertha Surfboards ha brevettato 4 tipologie di costruzioni con un’impronta ambientale davvero contenuta:
- Ertha Flex. è la linea più performante della gamma Ertha. Ha un core di PU riciclato e uno strato di legno su cui poggiano le strisce di carbonio che si usano comunemente per dare un pizzico di solidità (agli urti) e rigidità (nel feeling di surfata) alle tavole in epoxy.
- Ertha Natural Fiber Technology. Qui è dove Ertha inizia veramente a fare la differenza in termini di sostenibilità. Partendo ancora dal core di Epoxy riciclato, in fase di resinatura sulla tavola vengono applicati tessuti di origine naturale prodotti da BComp. A seguire vengono inseriti nella costruzione dei fogli di legno di paulonia, che dona alla tavola il look stile alaia, come se fosse tutta in legno.
- Ertha Wood Skin Technology. A proposito di legno, nella famiglia di Ertha esiste anche una linea di tavole high-performance costruite in legno. La particolarità di questa tecnologia è che su rail, nose e tail vengono applicate delle parti in legno.
- Ertha Hollow Technology. La tecnologia hollow nasce dalla rivisitazione di un metodo di costruzione tradizionale, che si usava ai primi del ‘900. Il core della hollow è fatto di uno scheletro di legno i cui elementi sono chirurgicamente tagliati a laser.
Il co-founder Ettore Burdese sintetizza così la mission di Ertha: “Abbiamo iniziato questa impresa con l’obiettivo di sostituire i materiali a base di petrolio con materiali riciclati o rinnovabili e organici. Al di là delle nostre tavole c’è l’esempio di successo dei pad in sughero realizzati per Jam Traction, un caso che ci insegna a credere in materiali organici che abbiano le stesse proprietà fisiche dei petrolati”.
Ertha per ora sta riuscendo ad incrementare la sostenibilità nel surf camminando sulle sue gambe, ma per scalare la produzione e penetrare meglio i mercati d’interesse avrà bisogno di sostegno finanziario. Una buona notizia è che i ragazzi di Ertha sono riusciti a progettare anche un round di finanziamento da 200.000€, già coperto per i due terzi. La seconda buona notizia è che tutti possiamo contribuire attraverso Crowdcube, piattaforma di crowdfunding molto esclusiva (seleziona pochi progetti l’anno) e che all’investitore, piccolo o grande che sia, dà una quota di equity (partecipazioni alla società) in rapporto al volume della donazione. Quindi in parole povere, se partecipate al crowdfunding avrete una quota in Ertha.
Oltre al discorso equity, Ertha si è adoperata per garantire vantaggi futuri a tutte le persone che parteciperanno su Crowdcube. Esistono vari ticket e relativi vantaggi, le tipologie di donazioni vanno dai 10 ai 20.000 euro. Inoltre Ertha in questi giorni ha lanciato un contest per dare la possibilità a chi sceglierà il ticket minimo da 10€ di vincere una tavola top di gamma. Scopri come partecipare qui.
Il mantra di Ertha è lavorare per un mondo più “SurfStainable”. Se ti senti coinvolto nella battaglia per la sostenibilità nel surf, partecipa attivamente andando a donare alla pagina dedicata su Crowdcube ad Ertha Surfboards.