Kale Brock è un surfista con un canale YouTube da 155.000 iscritti. John John Florence, per darvi un’idea, ne ha 162.000. Eppure la maggioranza di voi si starà chiedendo: chi diamine è Kale Brock?
Kale Brock si definisce uno storyteller che crea contenuti sul surf. Di fatto Kale è un abilissimo surfista con spiccate capacità di comunicazione, affinate nel corso di precedenti esperienze da giornalista televisivo. A qualcuno di voi sarà capitato magari di inciampare su YouTube nei suoi tutorial sui più svariati aspetti riguardanti l’oscura arte del surf: come prendere più onde nelle giornate affollate, come affrontare le session con fondale roccioso, come posizionare i piedi sulla tavole e distribuire il peso nella maniera corretta e via dicendo.
Perché ho deciso di contattare Kale Brock? Con i rimandi agli interessantissimi video che produce vi ho già dato più di una risposta, ma il motivo scatenante in realtà deriva da un’affermazione che gli ho sentito fare durante il 1° episodio di “How surfers get paid”, una serie di Stab incentrata sui meccanismi della surfing industry. Kale viene intervistato in qualità di content creator di successo e quando gli viene chiesto di presentarsi risponde: “I am just a storyteller who surfs…it’s funny ’cause it’s something I really struggle with. Because of that core community, and the judgment I received from them in the past, I am scared to call myself a pro surfer. But fuck it, I am a pro surfer”.
La frase tradotta e parafrasata in italiano suona più o meno così: “Sono soltanto uno storyteller che surfa…è assurdo perché ho sempre fatto fatica a dirlo. A causa dei commenti e dei giudizi che i surfisti duri e puri mi hanno rivolto in passato, sono sempre restio nel definirmi un pro surfer. Ma sai che c’è? Fanculo, sono un pro surfer”.
È stato sconvolgente per me apprendere che una persona preparata, competente e capace di raccontare il surf come Kale Brock sia stato accusato di fare il male di questa disciplina o di vendersi per ciò che non è. Abbiamo un problema analogo qui in Italia, dove alcune persone vengono delegittimate per ragioni molto più serie a confronto, ma comunque assurde. Ci siamo spinti oltre nell’instaurazione di questo clima da setta che chiude la porta in faccia perfino a surfisti del valore di Kale Brock. Per cosa poi? Quali sono i criteri che ti rendono un “vero surfista”? Chi li decide?
So per certo soltanto che dopo aver ascoltato e studiato quello che fa Kale Brock, vorrei che ogni paese bagnato dal mare avesse un ambasciatore del surf come lui.
Kale com’è possibile che tu ti sia sentito messo in dubbio a tal punto da aver paura di definirti un surfista professionista?
In Australia abbiamo un modo di definire quello che mi è successo, si dice “tall poppy syndrome” (la sindrome del papavero alto) e si verifica quando le persone provano invidia e gelosia per qualcuno che sta avendo successo vicino a loro. Sinceramente io non ce l’avrei fatta a diventare un pro surfer scegliendo la strada dell’agonismo, ma qui in Australia sembrava che quello fosse l’unico modo per vivere di surf. Per fortuna riuscire a guadagnare in questo ambiente così come sto facendo io, attraverso la creazione di contenuti e il surf coaching, è diventato più facile adesso. Alla fine molti di quelli che mi criticavano oggi continuano a surfare, e sono pure bravi, ma guadagnano da un lavoro normale: c’è chi sta in ufficio, chi fa il bagnino o chi costruisce le tavole. Personalmente mi ritengo fortunato e felice di poter girare il mondo per surfare e lavorare senza orari alla creazione dei miei contenuti.
Com’è iniziato il tuo percorso?
Ho cominciato a 10 anni grazie a mio fratello maggiore, che andava ad allenarsi con questa associazione sportiva con sede sulla spiaggia. Facevamo diverse attività tra cui il surf. Mi ricordo perfettamente la prima onda presa con un longboard, il modo in cui l’acqua fluiva sotto la tavola, fu amore a prima vista. Ma dove sono cresciuto, ad Adelaide, nel sud dell’Australia, non capita di surfare molto spesso: credo sia una condizione simile alla vostra in Italia. La città è incastrata in una baia stretta chiusa a tappo da Kangaroo Island, per trovare le onde dovevamo guidare parecchio. Finché non ho preso la patente non ho potuto placare la mia fame di surf, infatti mi consolavo col football australiano. A 16 anni sono stato contattato da alcuni club professionistici per giocare a football e credevo che sarebbe stata la mia strada, ma nulla era comparabile al surf. Quindi decisi di lasciare Adelaide per Sydney dove lavoravo come giornalista e potevo andare in mare tutti i giorni.
Ok stop, fermo un secondo: stavi per bruciare la mia prossima domanda. Siccome riconosco in te un ottimo comunicatore, volevo chiederti se avessi studiato per affinare questo talento. Sei stato all’università oppure hai fatto esperienze nel mondo della comunicazione?
Pensa che a 16 anni mi sono detto: non sarà mai un pro surfer, non sono abbastanza bravo, ma farò il giornalista. Ero capace a scrivere, mi piaceva parlare in pubblico. Ho iniziato producendo articoli e podcast per Surfing South Australia. Successivamente fui ammesso all’università nel corso di giornalismo ma decisi di prendermi un anno per surfare. Mentre ero in giro, mi chiamarono per un colloquio. Andò bene. Perciò mi ritrovai a fare il presentatore in un’emittente locale con un ruolo da giornalista, avendo saltato di netto l’università. Imparare sul campo è stato incredibile. Al tempo pensavo ancora che avrei tenuto il surf come una passione personale.
Guardando al tuo canale YouTube ho notato che hai iniziato occupandoti di travel, food, wellness…non facevi solo roba di surf. Poi cos’è cambiato?
Mentre lavoravo in ufficio come giornalista ho letto un libro che s’intitola “The 4 hour workweek” di Tim Ferriss, un testo che mi ha cambiato la vita. Odiavo stare alla scrivania, riuscivo a godermi quel lavoro soltanto quando andavamo a filmare in esterna. Non rinnego quell’esperienza e mi rendo conto che è stata fondamentale, ma mentre la vivevo ero irrequieto, volevo solo surfare. Uscire col buio per andare a lavoro, tornare la sera sempre col buio: che stress. Grazie a quel libro ho realizzato che si può vivere costruendosi una carriera online basata su qualcosa in cui sei esperto. In cosa ero esperto? Il surf. Allora con un mio amico ho scritto e prodotto un mini-documentario che si chiamava “How to Rip”. Speravamo di venderlo come dvd e stavamo per riuscirci, ma sul più bello il cliente sparì, lasciandoci a piedi. Il lavoro ormai era fatto quindi decidemmo di sparare il corso su YouTube senza aspettative. Sei mesi dopo mentre ero a Bali ricevo una chiamata da Ryan, il mio amico: “Non ci crederai, abbiamo 170.000 views e 9.000 iscritti al canale YouTube”. A quel punto ho aperto il mio canale e la cosa mi è esplosa tra le mani. Nell’ultimo anno ho guadagnato 50-60.000$ da YouTube ma la mia principale fonte di guadagno rimane The Surfers Roadmap.
Quando lavori ad un nuovo video riesci già a farti un’idea del riscontro che avrà? Sai riconoscere un contenuto killer?
Prima era più facile capirlo perché sapevo che ogni video sarebbe stato presentato alla maggioranza dei miei iscritti. Da un paio d’anni invece YouTube ha cambiato l’algoritmo per cui i video vengono sottoposti a persone che YouTube crede possano essere interessate, è subentrato il concetto di viralità. Ad esempio mi aspettavo che la serie sui twin fin potesse fare veramente bene, invece abbiamo ottenuto 300/400.000 views per la somma degli episodi. Credevo che avremmo fatto quei numeri ma per ogni singolo episodio. Non sai mai cosa succede, questa è la verità.
Capisco quello che dici Kale, però magari in quel caso a fronte di meno views sei riuscito ad influenzare più persone ad acquistare un twin fin. Non credi?
Sono perfettamente d’accordo infatti a me non piace guardare le metriche tradizionali, preferisco capire quante persone effettivamente provano a mettere in pratica i miei consigli. Con il video che raccontava la ricerca della miglior tavola possibile ho avuto cognizione di quanto fossimo stati in grado di incidere sui comportamenti delle persone. Sharpeye e Album sono andati in finale e successivamente da entrambe le aziende ho saputo che avevano registrato un forte incremento delle vendite basato sulle mie recensioni. In realtà il primo indizio l’ho avuto per caso: stavo ascoltando un podcast con Marcio Zouvi, il fondatore di Sharpeye, e citava il mio video ringraziandomi perché le vendite della Inferno 72 erano schizzate verso l’alto. Io in realtà non avevo nemmeno mai parlato con lui prima. Addirittura nel podcast diceva che da quel contenuto aveva avuto un riscontro maggiore che da Stab in the Dark.
Ma se le recensioni sono veramente indipendenti e libere, come fai a guadagnare?
Sarò sincero: prima di quel video mi sono sbattuto tanto per creare contenuti senza ottenere grandi guadagni in cambio. Da lì in poi sono cambiate le cose, ho avuto il potere contrattuale per negoziare partnership e contratti di collaborazione.
Mi hai parlato del risvolto positivo di quelle recensioni, ma dimmi la verità: per caso qualche brand di tavole se l’è presa con te per eventuali commenti negativi?
Assolutamente sì: alcune persone non erano felici. Quando ho iniziato il test ho mandato mail agli shaper per invitarli a partecipare, specificando che sarebbe stata una recensione onesta e senza filtri. A quel tempo tutte le recensioni che vedevo online si limitavano a ripetere “this board is sick”, “this board is sick”, “this board is sick”. A me piace l’idea che qualcuno venga pagato per recensire una tavola, perché il brand paga per la creazione di un contenuto di valore, ma nessuno ti incentiva ad essere sincero. Da quel punto in poi comunque ho iniziato a ricevere del denaro per provare delle tavole e quindi ho cercato formula che mi permettesse di rimanere credibile, quindi se qualcuno mi paga per testare una tavola con cui mi trovo male, gli do indietro la metà dei soldi e per rispetto non pubblico quel video.
Kale guardando al tuo profilo mi sembra di poter dire che a te non piace Instagram, sbaglio?
(Scoppia a ridere, ndr) Sì è vero, non mi piacciono i social in generale.
Perché non approfitti della visibilità che ti possono dare?
Non mi piace Instagram perché è veramente falso. Non partecipare alla messa in scena di Instagram, la mia vita non è sempre divertente e felice e soprattutto non surfo sempre onde perfette (ride, ndr). In più Meta come azienda in sé mi ispira cattivi pensieri, non voglio supportarli pagando per avere spazio. Con YouTube sento di poter veramente coinvolgere le persone perché i tempi di ascolto sono molto più lunghi. Instagram è solo un social dove posti belle foto.
Sono d’accordo in parte…per fare bei contenuti su YouTube ci vogliono tanto tempo e solide competenze, su Instagram basta molto meno per guadagnarsi delle attenzioni.
Infatti è pieno di quei tutorial da 60 secondi in cui c’è una persona in piedi su una tavola da surf nel salotto di casa, una persona che probabilmente non è mai uscita in mare.
Hai mai valutato una collaborazione con altri surfisti con tanto seguito su YouTube?
Mi piacerebbe. Sono aperto a delle collaborazioni ma ho la sensazione – senza avere conferma dei fatti eh, ci tengo a precisarlo – che gli altri ragazzi siano molto competitivi e che non darebbero grande valore ad una partnership del genere. Comunque in generale il mio mercato è molto differente da quello di un surfista che partecipa al Championship Tour. Esiste una core community che ama guardare uno come John John spaccare onde e quelle sono le persone a cui l’industria del surf pensa di doversi riferire per ottenere un guadagno. Esiste poi un insieme di persone, che secondo me rappresenta l’80% del totale, persone che hanno iniziato da poco o che surfano da anni senza grandi pretese. Ecco, quello è il mio audience.
Per concludere ti chiedo: visto che di fatto sei il surf coach di 155.000 persone su YouTube, Kale Brock che consiglio daresti ad un surfista italiano che fatica ad avere continuità nelle session in mare?
Io credo che girare col surfskate sia il modo miglior per rimanere allenati. Non penso che si possa imparare a surfare facendo surfskate, ma puoi certamente migliorare il tuo surf facendo surfskate. Il surfskate diventa davvero utile dal momento in cui hai superato il primo step di apprendimento, quando inizi a riconoscere il feeling della surfata e capisci cosa dovresti fare per andare meglio, ma ancora non sai come farlo. Se vedo una persona surfare, che sia un principiante oppure un intermedio, mi rendo subito conto se abbia praticato in surfskate o meno. È incredibile perché poi gli stessi problemi che hanno sulla tavola in mare li ritrovo sul surfskate. È molto più facile lavorare sulla tecnica durante una session in surfskate piuttosto che farlo in mare. Non è scontato che riescano a cancellare l’errore al primo tentativo, ma sicuramente hanno un’altra consapevolezza nello svolgimento del movimento.