Il surf italiano è molto più di quel che si vede sui social. Va ben oltre le polemiche da testiera, i nuovi sponsor o le collabo: non sono dei contratti ad alimentare il movimento, tantomeno i commenti sotto ad un post. Il surf italiano siamo noi: pionieri, beginners, veterani e locals, così come i pro. Troppo spesso ci dimentichiamo delle risorse più importanti quando siamo davanti allo schermo: la nuova generazione. E non intendo i millenials da buttare via come me, mi riferisco agli attuali protagonisti del surf giovanile che stanno preparando la svolta.
Ebbene sì, il futuro del surf italiano sono proprio loro: quelli che appena avranno la patente (diamogli 5/6 anni) verranno a sbatterci in faccia i risultati di anni di lavoro individuale e collettivo (ergo federale) di chi ha agito dal basso, preparando il terreno su cui far attecchire il talento. Senza dubbio saranno la prima generazione cresciuta con in testa il surf come attività sportiva pura, agonistica. Facciamo il punto della situazione con un atleta, un giudice federale ed un surf coach.
Riccardo Gennari, Luca Cordoni e Marco Pulisci. Chi gareggia, chi giudica e chi allena: 3 facce del surf giovanile italiano. Tre surfisti di età diverse e di varia provenienza, che mi aiuteranno a fare una fotografia del movimento.
Ragazzi mi confermate che il livello generale adesso è molto più alto?
Luca Cordoni risponde: “Da esterno, quello che vedo è che non si può ancora parlare di collettività in senso stretto: ci sono sempre spiccate individualità. Questo dipende soprattutto dal fatto che alcuni nascono con delle caratteristiche fisiche che gli consentono di emergere prima. Inoltre c’è ancora tanta differenza tra il più bravo e il meno bravo di categoria, anche se devo dire che da giudice lo noto meno nei più piccoli. Poi c’è il caso particolare dei surfisti che vivono all’estero: negli under 12 per esempio ci sono ragazzi che si allenano a Capo Verde e alle Canarie, anche se è positivo vedere che gli altri se la giocano quasi ad armi pari.”
Marco Pulisci integra: “C’è stato sicuramente un boom nella crescita del surf giovanile. Se prima alle gare si prestava attenzione solamente alla riuscita di una manovra, ora vedo dei ragazzetti che mettono le manovre con una bella tecnica: alle spalle c’è un altro lavoro, questo si percepisce ad occhio nudo. Alcuni ostacoli rimarranno purtroppo insuperabili perché di onde in Italia ce ne sono sempre troppo poche, per cui senza un ingente finanziamento da parte dei genitori oppure di uno sponsor non si può andare avanti.”
Ok ma dove possiamo ancora migliorare? Avete qualche idea per aumentare le possibilità di successo dei ragazzi?
Luca Cordoni: “Intanto visto che il livello si è alzato, non possiamo più prescindere da figure di riferimento qualificate come Marco e soprattutto strutture dedicate per la crescita del movimento del surf giovanile. Quindi dico sempre più persone qualificate e distribuite a macchia sul territorio e strutture in cui allenarsi. Se succede questo ci sarà un cambiamento.”
Provenendo dal rugby mi viene in mente che da circa 15 anni per coltivare i talenti della nazionale, la FIR ha un programma di accademie sparse per l’Italia. I migliori giocatori di ogni regione vengono prima selezionati per fare parte di un centro di formazione di una rispettiva macro area della penisola per poi essere eventualmente inseriti nell’Accademia Nazionale. Dai 16 ai 19 anni di età, quindi, un prodigio del rugby italiano potrebbe potenzialmente avere l’opportunità di allenarsi, dormire e seguire gli studi in un’unica struttura, in mezzo ai suoi simili. Fattibile per il surf?
Secondo voi un modello simile alle accademie di rugby nel surf in Italia è replicabile?
Marco Pulisci: “Va fatto il prima possibile. Adesso il livello è aumentato e l’età in cui gli atleti iniziano ad essere considerati tali si è abbassata, ora ci sono campioncini di 8-9 anni. Quello che dicevi tu al liceo io lo anticiperei addirittura alle elementari, iniziando ad abituare i ragazzini ad uno stile di vita basato sul surf. Non più come si faceva un tempo che si iniziava a lavorare seriamente a 13/14 anni. Dai 9 anni ai 14 devono seguire un programma che sarebbe bello se venisse addirittura inserito all’interno dell’orario scolastico. Bisogna cercare di avere molte più persone qualificate, perché senza di loro non ci sono ragazzi da seguire.”
“Ci tengo a specificare che non abbiamo l’obbligo di portarli necessariamente in mare, capisco che sia problematico per le scuole. Basterebbe solamente affiancare ai loro insegnanti degli allenatori che permettano ai ragazzi di esercitarsi sulle tecniche di base durante le ore di lezione. Anche perché gran parte dei movimenti hanno bisogno di una pratica a secco prima di poter essere riprodotti in mare. Se si inserissero nel programma attività come il surfskate per esempio, i ragazzi uscirebbero da scuola consci del fatto che esiste la possibilità di fare surf in modo serio, con un’opportunità di crescita e, perché no, di una carriera in futuro.”
E a te Riccardo, piacerebbe un approccio di questo tipo?
Riccardo Gennari: “Mi piacerebbe tantissimo, anche perché contribuirebbe a rendere l’allenamento parte della routine quotidiana in un modo ancora più radicale, senza rinunciare alla scuola.”
Ricky, come concili scuola e surf? Quando ti vai ad allenare come la prendono gli insegnanti?
“Ormai l’hanno capito, hanno una bella considerazione da me. Ogni qualvolta che viaggio per allenarmi ho le assenze giustificate e i professori si dimostrano sempre molto curiosi e comprensivi nei miei confronti. Riusciamo anche ad organizzarci in modo da non avere conflitti. Ho la fortuna di avere come allenatore mio padre, che ha un bel po’ di esperienza dato che surfa dal ’91. La vivo molto serenamente in realtà. Prima di una gara solitamente mi alleno sempre, ho uno skatepark di fianco a casa mia dove mi alleno con il surfskate tutti i giorni. Dove vivo le onde ci sono raramente, quindi mi sposto tanto. È da quando sono bambino infatti che viaggio per surfare, e sicuramente non sarei allo stesso livello se non mi fossi mai spostato.”
Marco interviene: “Dopo tutto per migliorare devi viaggiare. Quando arrivano da noi le onde sono sicuramente belle, ma pecchiamo di continuità e frequenza. Uscire dall’Italia poi è utilissimo: vedi cose che magari non vengono fatte, che sia una parte del riscaldamento o una manovra. Qui si vedono sempre le stesse cose, quindi il progresso prende piede più lentamente. Il livello si è alzato perché i ragazzini hanno iniziato a viaggiare fin da piccoli.”
Che atmosfera c’è alle gare?
Riccardo Gennari: “Una gara di surf non può essere affrontata come una partita di calcio: devi essere pronto con poco preavviso, adattarti velocemente alle condizioni. Nonostante lo stress fisico e mentale tra chi gareggia c’è un bello spirito.“
Luca Cordoni: “Il ragazzino che si atteggia ci sarà sempre, e se il movimento del surf giovanile cresce questo aspetto andrà soltanto ad amplificarsi. Uno dovrà aspettarsi un ambiente sempre più simile al mondo mainstream del calcio. Prevedo che la forbice tra quello bravino che si atteggia e quello più scarso un po’ lasciato da parte potrà soltanto allargarsi. Il surf non sarebbe questo, però purtroppo quando allarghi il giro finisci per uniformarti al resto. Devo dire comunque che i ragazzi alle gare si abbracciano, scherzano, si supportano, specialmente quelli della Nazionale. I genitori possono essere un problema, ma ovviamente non è una novità. È così in tutti gli sport. Dall’esterno comunque direi che si vive un’atmosfera piuttosto sana.”
Marco Pulisci: “Secondo me il clima rispetto a quando gareggiavi tu Edo è più rilassato. Adesso li vedo molto uniti tra di loro: è come se ci fosse più rispetto, nonostante la fascia d’età più bassa. Ovviamente se si fa agonismo ci sarà sempre quello che si atteggia in un certo modo, ma dev’essere un motivo di rivalsa in più per gli altri.”