Ho sempre pensato che il surf in qualche modo abbia cambiato la vita di ognuno di quelli che ha travolto nella sua schiuma. È come se, una volta percepito quello che ci può dare, la nostra priorità diventi gratificare l’animo rincorrendo quelle che poi sono solamente percezioni, emozioni e sensazioni. Non a caso, specialmente in Italia, chi non vive direttamente di surf fa ruotare la sua routine e i suoi piani attorno a quelle che sono due ore di puro benessere e divertimento. Inclusi in questo quadro ci sono pure i lavoratori che vivono distanti dal mare, nelle grandi città, che fanno di tutto per riuscire a godersi il weekend di onde sulle coste.
Tuttavia, non basta mai. Non è mai abbastanza, e non ne avremo mai, forse perché siamo contagiati dal consumismo di massa che ci spinge a divorare quello che la natura e il mondo ci offrono. Ed è lì che bisogna scendere a compromessi per non rischiare di non dare più il giusto valore a quello che abbiamo davanti. Una volta rapiti dal surf si viene messi difronte a scelte di vita radicali, importanti, come quella di Tommaso Selo, surfista della flotta genovese stabilitosi in Versilia da qualche anno. Chi è passato per Wolfhouse e TFR negli scorsi anni probabilmente lo conoscerà.
Maestro di stile, trasmette pace, leggero e fluttuante sulla punta del long, anche se nato tavolettaro come il 90% dei surfisti italiani. Tommaso Selo ci apre una porta sulla sua vita: “Ho 26 anni, sono fisioterapista e faccio surf da quando ne ho 17. Sono stato tra Spagna e Francia per un po’ di tempo fino a che, a 23 anni, non mi sono iscritto all’università. Ora sono sposato e mi sono stabilito a Lido di Camaiore, dove convivo felicemente con mia moglie Francesca”. Sul suo percorso di studi afferma: “Ho fatto il primo anno di Scienze Motorie perché non entrai a Fisioterapia. L’anno in cui mi sono sposato , mi sono laureato con 6 mesi d’anticipo per cui è da Aprile che lavoro come libero professionista a tutti gli effetti”.
Hai dedicato molto tempo della tua vita a lavorare per il surf: quali sono i pro e i contro di cimentarsi nella routine estiva delle surfhouse?
“Lavorare in surfhouse non è il massimo per il surf in sé. Sei sull’oceano, hai tante possibilità, però non puoi spostare i turni in base alle maree per ottimizzare le session. Soprattutto, dipende molto anche dall’ambiente in cui ti trovi. Per esempio, lavorando in TFR avevo la possibilità di essere più autonomo e riuscivo a gestirmi meglio il carico di lavoro con il resto dello staff. Con Ale e Cami ero meno indipendente in questo senso, per cui non sempre riuscivo a combinare perfettamente gli orari lavorativi con le onde. D’altro canto invece, in surfhouse quelle rare volte che passano surfisti di livello, hai la possibilità di interfacciarti con gente forte. Ho visto crescere diversi talenti in Wolfhouse, come Filippo Marullo. Le Landes, per la qualità delle onde e il livello da QS, sono una stanza dello spirito e del tempo per il surf”.
“Ora sono un libero professionista, ho il mio ambulatorio e i miei pazienti. Di conseguenza mi gestisco tutto da solo. Se vedo che ci sono onde faccio un giro di telefonate per spostarmi gli appuntamenti. Alla fine dei conti il weekend non lavoro e ho 3-4 mezze giornate libero. L’unico contro è che al momento sto gestendo dei percorsi sul medio-lungo termine con delle persone, per cui è più complicato chiudere lo studio per tanto tempo. Finché sono due settimane si riesce a gestire abbastanza, dopo le tre rischi che la gente ti sostituisca con altri. Senza contare il dispiacere nell’abbandonare persone che necessitano del tuo aiuto”.
Lasciare casa per vivere nuove esperienze non è più una novità. Tuttavia, noto sempre dello scetticismo nel genovese che ascolta le storie di chi ha abbandonato la città. È come se si tendesse a non voler aprire gli occhi su quello che c’è al di fuori, respingendo stimoli e opportunità. Lo sentivi anche tu questo? Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a partire?
“Devo dire che sono tanti anni che non vivo più in Liguria: a 19 anni sono andato via e non sono più tornato per periodi lunghi. Nei paesini sulla costa l’ho percepito molto anche io: c’era molto il chiudersi all’interno del paese, trovare lavoro lì e costruirci una famiglia. Preclude molto la conoscenza rispetto a quello che c’è fuori, per pigrizia e anche paura direi, forse per l’ansia di buttarsi in un vuoto in cui si perde la sicurezza delle 4 mura che ti circondano. Per la Genova che ho sentito io sì: il problema è che partiva dai giovani, che cercavano di rimanere nella loro comfort zone. In pochi della mia generazione si sono spinti come me a partire, anche in modi azzardati talvolta. Ti forma molto di più viaggiare: se non metti il naso fuori casa quello che vedi è molto limitato”.
“Non mi bastava quello che avevo attorno: andare all’università lì, andare in piscina, vedevo troppo una routine già strutturata per un ragazzo di 19 anni. Il solito giro la sera, i soliti amici, i soliti luoghi, le giornate tutte uguali. A quell’età non ce la facevo, non credevo ci potesse essere solo questo: doveva esserci di più. Ho avuto anche un periodo di depressione legato a questo. Mi ero iscritto a Fisica, i primi esami non erano andati bene, non mi trovavo, tanti amici erano andati via, avevo perso un po’ tutti ed ero abbastanza giù. La persona che mi ha dato la spinta ad andare via è stata mia mamma, che un giorno mi ha detto: non puoi andare avanti così. Ho sentito Ale e Cami e con mia madre siamo partiti in Panda da Pieve Ligure fino a Somo. È stata una mamma forte a venire da me e dirmi di andar via, se non ci fosse stata lei a darmi quella spinta tante cose non sarebbero successe”.
Dopo aver viaggiato per anni, qual è il surftrip che ti ha lasciato di più a livello personale?
“Sicuramente il Nicaragua: viaggio wild, on the road con la tenda in solitudine. Per me è stato formativo, vivevo con nulla a contatto stretto con i più poveri delle classi sociali e mi ha fatto crescere molto. Surfisticamente parlando, passavo 6-7 ore al giorno in mare con onde. Ero sempre solo, uscivo da tubi con lo spruzzo ma non c’era nessuno con cui condividere il mio entusiasmo. Grandi conoscenze lì non ne ho fatte: uscivo dalla mia tenda, surfavo e poi andavo in cerca di cibo, che non era così semplice trovare. Passavo le giornate così. Un’altra esperienza interessante sicuramente è stata la luna di miele alle Hawaii. Non ho surfato Pipe ma il beach break affianco: quando era fattibile c’era troppa gente. I giorni in cui c’erano le mie condizioni c’erano 50 persone di livello altissimo. L’unico giorno che c’era poca gente c’erano 30 piedi”.
“Ho fatto il primo giorno a Sunset prendendo una tavoletta a caso. Ho preso 4 legnate e ho subito capito che lì le onde hanno una potenza imparagonabile. A parità di onda le Hawaii hanno una massa d’acqua diversa: te la fa sentire sulle spalle, sembra che il mare sia vivo. Lì ho conosciuto gente totalmente fuori dai radar che vola, parecchio anche, i classici con la muta nera e tavola bianca che ti saltano sopra la testa. Ho avuto piacere di conoscere Mike Reinhardt, 40 enne che surfa per O’Neill: mi ha portato nel retro di casa sua e mi ha dato la tavola che Kolohe Andino aveva usato per l’ultima stagione alle Hawaii”.
Come già detto in precedenza, sei nato tavolettaro ma oramai ti vediamo sfrecciare solo sul long. Quando è avvenuta la conversione? Hai ancora tavolette o surfi solo tavole vecchio stile?
“In realtà ho ancora una tavoletta: una 6’1 bella tirata con un po’ di litri per Levanto. È l’unica condizione con cui non entro in long in Italia. Il passaggio alla tavola lunga è stato un po’ subdolo a dire il vero. Piano piano il long si è insinuato nella mia vita e mi ha conquistato. Soprattutto poi, tornando a vivere in Italia, le condizioni da tavoletta sono poche, e quando ci sono c’è da litigare. Come mi disse una volta in mare Francesco Benedetti, un local qua di Lido: “Qui in Italia una volta che assaggi il biscottone non torni più indietro”. Anche quando le condizioni sono un po’ più impegnative, entro in long e mi diverto lo stesso”.
Si potrà mai arrestare l’ascesa che il surf sta avendo nel mondo? Pensi che le persone come noi debbano educare i neofiti culturalmente?
“Non si può fermare questa macchina. Il rischio è di perdere tante persone di qualità. Ho paura che ci si allontani dal surf perché vai in mare e ci sono 50 persone, vai sui social e tutti lo spammano dopo la seconda lezione. La mia paura è che gente che faceva il surf per le sensazioni e il piacere di farlo, ignaro dell’immagine che poteva avere, si possa annoiare e allontanare da questo mondo. A livello commerciale, sicuramente, non smetterà mai. Mi diceva un amico francese che gli istruttori di surf a Hossegor arrivano 7-8-9K al mese. Non si fermerà questa ascesa, ma la paura che molti surfisti veri si possano staccare c’è. Tra 10 o 20 anni il pensiero che ci sarà il triplo delle persone fa passare la voglia anche a me. Si possono anche educare le persone ma gli spot si satureranno prima o poi”.
“Fino a qualche anno fa cercavo sempre di più col surf: non bastava mai. Sei alla ricerca ma non ti da mai abbastanza. Quel qualcosa di più l’ho trovato nella fede. Mi sono convertito, sono cristiano ora, e devo dire che mi ha dato tanto. Soprattutto è riuscita a riempire il vuoto lasciato dalle onde a livello di gratificazione personale. Era una ricerca sfrenata di quel di più che non trovava fine. In Italia non si espone mai nessuno sull’argomento, ma alle Hawaii ho vissuto un’esperienza diversa. Se dici ‘Dio ti benedica’ in giro per la strada, loro sono felici e ti rispondono: qua in Italia ti mandano a quel paese”.
“Frequentavamo la Sunset Beach Christian Church, tutti surfisti, giovani, pastore compreso (famiglia stupenda, 3/4 figli): tre giorni a settimana mangiavano tutti assieme e poi in acqua erano spray in faccia. Anche Bethany Hamilton è in questo mood. Purtroppo qui in Italia non vende: l’idea di religione pervade tutto, pensi alla fede e colleghi subito la religione cattolica. Per me è una relazione così come con le onde. Tuttavia, in mare tu vai e prendi, in modo egoistico, mentre per me la fede è un rendermi disponibile a compiere quello che sono, dando tutto me stesso.”