di Luca Filidei
In un articolo pubblicato a dicembre sul web magazine che state leggendo, Dario Nardini, autore del libro Surfers Paradise. Un’etnografia del surf sulla Gold Coast Australiana (Ledizioni, 2022), spiega come tale disciplina sportiva offra “un’alternativa alla percepita banalità e scontatezza della vita quotidiana, ma soprattutto alla passività che [i surfisti, N.d.A] scorgono nel comportamento del consumatore medio”. Una definizione arguta e appropriata, con il sottinteso che si discosta dai tipici stereotipi del surf, quelli alla Surfer, Dude (S.R. Bindler, 2008) per intenderci, poiché lo Sport of Kings è qualcosa di diverso, in grado di trascendere le accezioni (appunto) più banali e concentrarsi su quella vibrante subculture che lo contraddistingue.
L’egoismo che sfuma in un (paradossale?) senso di comunità. Il dualismo tra Wannabe e OG. Gli infiniti surftrip a bordo di un van, ma anche con Airbnb e Booking, certo. Queste sono solo alcune delle storie del surf: uno sport e una cultura vibrante che poi si può tradurre con una costante capacità di rinnovarsi, assumere e rappresentare molteplici significanti e significati.
Sì, perché tutto si può sostenere fuorché la staticità di una disciplina che può essere sinonimo di misunderstanding per come viene erroneamente interpretata, ma anche come grande analogia dei cambiamenti della nostra società. Non a caso Matt Warshaw su questo tema ha scritto un’opera monumentale, The History of Surfing (Chronicle Books, 2010), ripercorrendo l’evoluzione del surf sin dall’epoca delle caballitos de totora, per poi svelare la realtà dietro all’Hui Nalu Club (esatto, quello leggendario con George Freeth e Duke Kahanamoku) e proseguire con Tom Blake, Woody Brown, la “surfmania” californiana e persino quello spartiacque culturale che è stato Gidget (P. Wendkos, 1959) quasi cinquant’anni prima del film con Matthew McConaughey. Il surf corre, verrebbe da scrivere. Sfreccia verso il futuro come un surfista che coglie un buon set, per poi delle volte soffermarsi a riflettere sul passato, ad osservare quella spiaggia distante che sta lì ad aspettare: il tempo della riflessione. Ma ora non siamo a quel punto, no di certo. Forse mai come ora questo sport sta attraversando una rivoluzione. Dinamica. Controversa. Aggressiva. La WSL, attraverso la nuova vision del Winfreyano Erik Logan, ne è parte senz’altro. E poi? Be’, e poi c’è la “breaking news” delle wavepool, capaci di inserirsi nel surfing mondiale come a dire: ora ci siamo noi a cambiare la tendenza
Le wavepool portano il mare a casa vostra.
Basta solo cliccare “add to cart”
Diciamocelo, questo è già un paradosso. Le wavepool non sono state inventate la scorsa settimana. Fate un viaggio a Redebeul, chiedete della Bilzbad e ve ne renderete conto. Lì non si surfava, d’accordo, però qualche onda si generava e l’anno che correva era il 1912. No, se affrontassimo l’argomento da questa prospettiva non sarebbe corretto. Uno storico lo potrebbe fare. Oppure un architetto come il sottoscritto che analizza le varie infrastrutture. Qui però vorrei approfondire il tema sotto un’altra prospettiva, quella culturale. E in questo caso, datemi retta, può davvero aprirsi un nuovo mondo.
Negli States si prevede infatti un futuro che accosterà le wavepool agli skate park e alle palestre YMCA. Uno sviluppo impressionante, tra l’altro confermato dalle prospettive già pianificate da parte di società come Wavegarden e Endless Surf, decise a rendere sempre più globale tale conquista tecnologica. Non è utopico descrivere un 2030 in cui si potrà raggiungere comodamente una wavepool per una session programmata, oppure, prendendo spunto da un’intervista alla surfista Gigi Lucas, diverse università statunitensi che, tra le varie discipline iscritte alla National Collegiate Athletic Association, potranno vantare anche il surf su onde artificiali.
In pratica, ormai è chiaro, si sta assistendo all’affermazione del cosidetto “urban surfer”, un surfista urbano che si discosta dagli imprescindibili (finora) principi di questa disciplina. E così niente più surftrip in località remote. Niente più lineup affollate né localismo (almeno quel poco ancora presente). Ora basta uno smartphone, una wavepool nelle vicinanze e una carta di credito da inserire nella selezione “add to cart” per assicurarsi il proprio spazio, sempre adeguato all’abilità di chi lo prenota.
Così si sta inevitabilmente modificando l’intero sistema. Dall’Italia, ipotizziamo Milano, i viaggi sono ora verso la Svizzera, o meglio Sion dov’è localizzato Alaia Bay. Ma se si è alla ricerca di un’onda statica basta prendere la linea blu direzione Idroscalo dove ad aspettarci c’è la tecnologia Unit di Wakeparadise. Nuovi surfisti, anche se beginners e di onde artificiali, si stanno quindi approcciando a questo sport in un modo completamente diverso da quello che potremmo definire come “canonico”, individuando le varie wavepool a differenza degli spot, e pagando semplicemente le session anziché sgomitare per ottenere lo “status” di surfare un’onda. Differenze accettate o meno, ognuno ha la propria opinione, ma in ogni caso capaci di rivoluzionare lo stesso concetto di surf, così come incrementare (enormemente) le potenzialità di business del sistema. Perché è vero che le wavepool possono diventare strumenti di inclusione, senza però scordare la potenziale costruzione, in determinati casi, di una colonia di strutture di élite, ovviamente spiccata nemesi di quel concetto alla Surfer, Dude.
Nel primo caso, come sostenuto dalla già citata Gigi Lucas, tali impianti possono permettere la pratica del surf a chi non ci avrebbe nemmeno pensato. Le ragioni sono tante. Lontananza dalle onde. Sfavorevoli condizioni economiche. Difficoltà nel trovare lo spot giusto. La logica è semplice. Riprendendo un concetto caro agli e-commerce si risponde a questa domanda: vi manca il mare? Noi lo portiamo a casa vostra e così via. Un processo basilare (solo all’apparenza, ovvio) che però dev’essere supportato da una strategia che consenta (davvero) a tutti, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche, di entrare in queste strutture, evitando così un loop negativo che ci riporterebbe all’inizio del percorso.
Lo stesso che ci conduce alla seconda opzione, quella riferita all’élite che in fondo rappresentava l’antagonista, almeno a livello mediatico, della beach bum culture degli anni Cinquanta e Sessanta. In quel periodo ci si riuniva intorno ad un falò dopo aver sfrecciato lungo la U.S. Highway 101, altrimenti detta Pacific Coast Highway o più semplicemente PCH, che per i surfisti, lo sappiamo bene, è considerata la Destinazione. Figuriamoci accomodarsi in un club privato dotato di ogni comfort.
Crest Surf Club: a New York sta per sorgere un circolo esclusivo con la sua onda privata
Eppure una storia futura sarà proprio questa. Ipoteticamente, potrebbero esserci raffinate surfer clubhouse sparse per il mondo, dotate di wavepool e spazi per trascorrere il tempo libero. Una a Madrid. Un’altra a Parigi. Una terza a New York. In questo caso non stiamo nemmeno ipotizzando, poiché il Crest Surf Club di NY è già in costruzione e un’occhiata dobbiamo obbligatoriamente darla.
Il concept è stato annunciato ad ottobre dello scorso anno, sulla scia del successo ottenuto da Wavegarden pur in una scala decisamente differente. Sì, perché una delle diversità principali riguarda proprio le dimensioni, che nel caso di queste clubhouse sono ridotte, perfettamente in linea con la vision introversa dell’impianto. Ci troviamo a Long Island, precisamente a Shirley, al di sotto della I-495 e al di sopra del geometrico suburbio statunitense. New York è a ovest, l’oceano a sud. Intorno alla proprietà, ora un cantiere, vegetazione in abbondanza e una serie di strutture prefabbricate, incluso un centro di distribuzione Amazon che appare come un’indovinata analogia: è qui che sarà inaugurato il primo Crest Surf Club.
La sua vision è molto semplice, quasi elementare ma proprio per questo estremamente azzeccata. Dietro a tutto ciò c’è un surfista, Chris Portera, ora Founding Partner e co-CEO della società e primo protagonista (visionario) dell’intero investimento. Che non si tratta di realizzare esclusivamente una wavepool per consentire a tutti di surfare, perché con il Crest Surf Club si intende soprattutto creare una nuova cultura, un nuovo lifestyle, una community di persone connesse per la passione dell’oceano che si ritrovano a scambiare esperienze, condividere ambizioni e persino discutere di affari.
Surf sull’onda artificiale, yoga e business
Bisogna essere chiari, l’inclusività tanto apprezzata (giustamente) da Gigi Lucas non è il primo obiettivo di Portera, che al contrario, almeno secondo le informazioni ora disponibili, ambisce a ricreare un’estetica simile a quella di un golf country club. A Shirley niente green naturalmente, ma una tecnologia esclusiva (Premier Surf Systems) che potrà garantire 180 onde in un’ora, circa 77 metri di surfata e un design dell’onda completamente personalizzabile a seconda del livello di ognuno dei partecipanti. Ovviamente la lineup non sarà affollata, con un range previsto che varia dalla decina alla ventina di persone: cifre molto diverse da quelle di un sistema Wavegarden Cove, che però si riferisce ad un business completamente differente. L’idea di Portera, ma anche del collaboratore Adrian Tobin, leader di Kinlab con esperienze al Kelly Slater’s Surf Ranch e ad Alaia Bay, intende intercettare fondamentalmente l’élite, quelli che potrebbero farti risuonare in testa la canzone di Sesame Street One of These Things (Is Not Like the Others) per come raggiungono la spiaggia.
Perché al Crest Surf Club la wavepool rappresenterà solo una parte dell’edificio. Certo, sarà quella centrale, centralissima anzi, ma intorno a quella sofisticata tecnologia ci sarà una funzionale e intima lounge, degli spazi destinati alla preparazione fisica e al rilassamento (esatto, mi riferisco a yoga, pilates, meditazione, massaggi, ecc.) fino ad un’elegante balconata per organizzare eventi sempre supportati da concierge dedicati. Viene quindi spontaneo considerare questo club, praticamente localizzato nell’area che viene comunemente soprannominata “gateway to the Hamptons”, la prossima esclusiva e originale “fuga” da New York, come tra l’altro già previsto dalle analisi di mercato sviluppate dalla stessa società.
Il futuro sembra così tracciato. Long Island, nel 2024, sarà la prima tappa. Ma ad aspettare il sequel di questo primo Crest ci sono già Chicago, San Francisco, Los Angeles. Siamo di fronte ad un’incombente rivoluzione? No, non penso. E la ragione è semplice: guardatevi intorno e vi accorgerete che la prima (innovativa) swell rivoluzionaria è già arrivata.