Nella prima edizione di AQVA Magazine, Leo chiudeva l’intro in questo modo, descrivendo a pieno la cruda realtà di cui ci sentiamo di far parte: “Mediamente scarsi, rumorosi, entusiasti per ogni maledetto mezzo metro, ma passione e resilienza non si discutono”. Penso che soprattutto chi viene da fuori ci possa vedere da questa prospettiva: tanto fumo e poco arrosto. Soprattutto, non siamo per nulla abituati ad essere giudicati come punti di riferimento per il surf estero. Guardiamo oltremare in cerca di idoli ed ispirazioni, come se non avessimo piena fiducia nelle nostre risorse. Ogni tanto, però, è bello potersi mettere nei panni altrui.
Ero ancora a Barcellona quando, per casualità, ho notato che Brock Jones, figlio del maestro Bruce Jones, era da qualche tempo in Italia a produrre tavole. È piuttosto strano, se ci pensate, avere uno shaper californiano nel nostro paese. Non a caso, la domanda mi è sorta spontanea e ho deciso di scrivergli per capire che stesse combinando in Italia. Da lì è nata una chiacchierata per cui ora, ringraziando Brock, siamo qui. Come dicevo prima, è bello ogni tanto potersi mettere nei panni degli altri, e Brock dall’alto della sua cultura surfistica mi ha fatto innamorare ancora di più della scena mediterranea di cui sono parte integrante.
Non siamo abituati ad avere surfisti internazionali tra noi: come sono andate le interazioni coi surfisti locali finora?
Sicuramente i ragazzi di Surf Cove di Livorno sono stati molto d’aiuto nel farmi conoscere la comunità locale (tant’è che Brock ha dedicato un nuovo modello della sua linea di tavole ad uno spot locale), la zona della Toscana e la sua scena surfistica. Solitamente entro in mare, cerco di sorridere a tutti e dico ‘buongiorno’ col mio strano accento, e questo è tutto. Da agosto ho fatto 6 viaggi a Livorno, dove ho svolto la maggior parte del mio lavoro, e a quanto pare sono anche stato molto fortunato. Lo scorso settembre ho preso il primo giorno di onde epiche, ho poi surfato altre volte e devo dire che mi ha stupito la qualità delle onde che avete qua in Italia. Adesso c’è questo mito che narra che ogni volta che sono qui ci sono le onde: le persone, infatti, remano verso di me, salutandomi e ringraziandomi.
Cosa pensi dell’Italia e degli italiani? Cosa ti ha spinto a venire qua?
Vediamo come potrei formulare la risposta. Ho studiato Storia dell’Arte e l’argomento principale dei miei studi è stato il Rinascimento Italiano. Chi conosce la storia dell’arte e l’Italia sa che questo Paese ha una tradizione manifatturiera incredibile, che si è sviluppata in migliaia di anni di storia. C’è questo profondo rispetto per l’artigianato. Noi non abbiamo questo tipo di cultura in California, ma sì, abbiamo le origini della storia del surf. Oltre a questo, una cosa che mi ha davvero colpito dell’Italia è che ha soprattutto dal punto di vista paesaggistico ha molte somiglianze con la California: le montagne che si stagliano subito dietro la costa, il clima e anche le onde della Toscana mi ricordano casa.
Sei d’accordo sul fatto che siamo il popolo di surfisti più californiani dopo i tuoi compatrioti?
Sono d’accordo con te al 100%, totalmente. Finora mi sono sentito parte di una realtà molto aperta, calda ed accogliente in un modo che non si può paragonare alla Francia oppure al resto d’Europa.
Quanto pensi sia rilevante per un paese come il nostro avere un surfista nel circuito mondiale?
Penso che le federazioni tendano a concentrarsi e a promuovere un aspetto troppo competitivo del surf, che agli occhi del pubblico risulta interessante perché gli atleti si spingono al limite alzando il livello dello sport e facendo cose sempre più folli. Tuttavia io preferisco concentrarmi sull’aspetto culturale: sarebbe figo riuscire ad organizzare seminari per insegnare come essere felici in acqua, sia che si tratti di un giorno con le onde buone o meno buone. Abbiamo parlato di Lorenzo Raccuglia, un ragazzo tranquillo e rilassato. Quando pagaia ha questa aura attorno a lui indescrivibile: è una persona piacevole da guardare, non ha bisogno di fare gare, di essere competitivo per essere notato. Così com’è successo con lui, sarà capitato con altri surfisti immagino…perché non lasciare che siano questi free surfer ad educare la massa di neofiti, soprattutto in un paese come l’Italia?
Pensi anche tu che stiamo vivendo in un’era postmoderna del surf?
“È bello pensarci. Mi concentro molto sul longboard, credo che lo si possa notare guardando i miei contenuti. Alla fine degli anni ’80, il longboard ha subito una rivoluzione, per poi tornare dopo un paio di decenni e non essere più molto popolare. Grazie ad un certo surfista di nome Joel Tudor, l’approccio classico al longboard è tornato in auge. Riuscire a rappresentare il surf che si faceva alla fine degli anni ’60 con eleganza e grazie è stato un grande punto di svolta per il surf retro. Quello che stiamo vivendo ora può essere definito un movimento postmoderno del surf, ma credo che stavolta la tendenza sia molto più globale di quanto non lo sia mai stata, perché in California questa rivoluzione era arrivata già alla fine degli anni ’80. Le tavole da surf retrò hanno solitamente un volume extra e questo favorisce una gamma più ampia di surf e di surfisti. È evidente, però, che la cultura stia cambiando. Ieri ho fatto una chiacchierata con un paio di ragazzi che mi hanno detto che se 10 anni fa fossimo entrati con una tavola lunga l’intera lineup sarebbe impazzita.
Quando e come ha inizio la tua storia d’amore con il surf?
Come molti altri bambini, sono stato introdotto al surf quando avevo probabilmente 5 anni. La nostra casa era proprio sulla spiaggia in California, quindi sono cresciuto giocando sulla sabbia. Un giorno, dopo la scuola, mio padre decise di portarmi in lineup e iniziò a spingermi sulle onde. In seguito, assieme al suo amico Peppy Poppler (fratello di Jerry Poppler, campione del mondo) hanno iniziato a remare con me e i miei amici su longboard da 11 piedi, aiutandoci a stare in piedi sul nose delle tavole. Finalmente, a 6 o 7 anni, hanno deciso di regalarci dei mini-longboard con cui effettivamente abbiano iniziato a surfare in autonomia.
Il longboard è tornato in auge negli anni ’90, così mio padre ha deciso di formare una squadra junior di longboard con i migliori longboarder californiani di 16-17 anni. Ho avuto modo di veder crescere questi ragazzi, andando in giro per le gare con mio padre a guardarli competere. Alle gare c’erano persone come Joel Tudor, Josh Paxter, Kevin Connley. Sono stato molto influenzato da quegli anni. Al di là del surf, mio padre mi ha sempre dato l’esempio. Abbiamo trascorso molto tempo nella natura, i suoi genitori erano figli della Grande Depressione, quindi non spendevano molti soldi. Se volevano andare in vacanza andavano in campeggio, in inverno nel deserto o in montagna in estate nel Nevada. Anche mio padre era quel tipo di persona che non voleva spendere troppo, ci portava in campeggio per trasmetterci un profondo rispetto per l’ambiente e le altre culture.
Quanto ti ha influenzato tuo padre nell’handshaping?
Penso di essere l’esatto prodotto dello stile di design di mio padre e del suo approccio all’handshaping. Come scrivo spesso sul mio blog, shapare a mano è un modo per restare in contatto con lui e mantenere il legame, oltre a fornire un prodotto. C’è un altro shaper che mi ha davvero ispirato, Rich Pevel, di San Diego, il designer contemporaneo delle tavole da surf fish. In pratica Rich ha sfornato tutti i design dei fish californiani. Il suo approccio è non-sense, molto diretto e con una metodologia specifica. Io tendo a rimanere molto vicino alle caratteristiche che mio padre ha conferito alle sue tavole, ma amo provare ad esplorare zone d’ombra dello shaping, mescolando alcuni dei modelli che mi ha tramandato col suo know-how. Mescolare cose che non appartengono necessariamente l’uno all’altra, ma che trovano comunque un flusso, è uno dei miei obiettivi. Solitamente le mie tavole escono fuori da tratti semplici e fluidi. L’acqua ama le superfici lisce e ininterrotte, per cui le linee pulite sono le più adatte.
Perché l’handshaping ha questo valore per te?
Il CNC (shaping machine a controllo numerico, macchine che danno la prima forma alla tavola) per paradosso ha reso ancora più rilevante l’handshaping, perché ci sarà sempre e comunque bisogna di una finitura umana per arrivare ad un certo risultato. Più le cose si generalizzano con il CNC, più alcuni surfisti vorranno sviluppare una tavola unica con lo shaper, non solo acquistare qualcosa che è stato ritagliato da un file di computer. Non credo che la CNC sia intrinsecamente negativa, è utile sotto certi aspetti. Attualmente ci sono molte tavole che vengono commercializzate come artigianali, ma in realtà non lo sono.
L’handshaping è davvero rilevante al momento ed è bello vedere che in Italia si stia diffondendo così tanto. La Toscana ha, a mio parere, uno dei migliori boardmaker d’Europa, e sono contento di vedere così tanti handshapers emergenti in Italia: non sta diventando una tendenza ma uno stile di vita. Inoltre, siamo più collegati come culture di quanto pensate. Una cosa che la gente non sa è che ogni singolo blank è progettato da uno shaper. Un handshaper modella lo scheletro che costituisce lo stampo per il blank. In questo senso, i blank statunitensi, che hanno migliaia di varianti diverse, hanno una cultura del design davvero profonda. Quindi quando si importano i pani statunitensi, si importa la California. Ogni blank è progettato a mano da uno shaper di fama mondiale e mio padre ha realizzato 3 design per loro e per Clark Foam. Per mantenere la tradizione e custodire lo spirito della California, sarà importante che le aziende che producono i blank continuino ad esportare in tutto il mondo.