L’abito non fa il monaco. Un detto che nella maggior parte dei casi è coerente con la situazione surfistica italiana. Da un paio di settimane ho iniziato a collaborare ad un nuovo progetto e mentre stavo creando dei contenuti al riguardo ho rilfettuto su un fattore interessante. Sto tenendo un corso per la Creative Academy di Nick Pescetto dove do dei consigli basati sulla mia esperienza a chi vuole iniziare a scattare dall’acqua. Facendo vedere alcuni esempi di tutte le fotografie che ho scattato in Italia, mi sono reso conto che la maggior parte di quelli che considero gli scatti migliori sono stati fatti con condizioni di mare indecente. Strano? No. C’è una spiegazione logica e penso che sia radicata nel dna del surfista italiano.
Genetica
Ci avete mai fatto caso che ogni volta che un italiano si mette in testa qualcosa poi alla fine lo porta a termine? Nel bene o nel male siamo testardi, non ci arrendiamo mai e abbiamo la presunzione di voler aver ragione. Sempre. Non accettiamo la sconfitta e quando perdiamo torniamo più forti di prima. L’orgoglio è la nostra forza, la vanità e la voglia di dimostrare sono la nostra benzina. Tutte queste caratteristiche trovano perfettamente sfogo nel surf. Ma perché ci siamo così incaponiti su questa disciplina che in realtà nel nostro paese non ha radici culturali? Perché il surfista italiano è così ossessionato dal mare?
Il mare è un affare italiano
Viaggiatori per eccellenza, il mare è il cuore pulsante della storia del nostro paese. Dai grandi esploratori come Cristoforo Colombo ed Amerigo Vespucci, passando per la cantieristica navale che da sempre è un orgoglio nazionale, fino agli sport di regata e poi ancora la pesca, l’apnea e la tradizione culinaria. La penisola eccelle in qualsiasi settore quando si tratta di acqua salata, ma nel surf è un altro discorso. Ritorna così in gioco l’orgoglio: non possiamo lasciar divertire solo gli altri, il mare è cosa nostra. Se mixate l’orgoglio con la passione viscerale che mettiamo in ogni cosa che facciamo, ecco che si spiega perché in Italia siamo così innamorati di questo sport. Questa è la forza del surfista italiano.
Martedì 25 Aprile al pontile di Forte dei Marmi c’erano tutti. Il mare era arruffato, incasinato, grosso e con poca forma. Uno scoppione incontrollabile eppure eravamo tutti lì, in acqua a farci cullare dal lavarone e dalla corrente. Tre session, molte facce note e pochissimi forestieri. Già perché il mare bello è di tutti, ma quando invece la situazione si fa poco invitante siamo sempre in pochi. Siamo quelli come noi per cui qualsiasi schiuma è abbastanza per decidere di entrare. Qualcuno con accento non toscano si avvicina “sapete consigliarci uno spot più fattibile?” Ma per noi quello era il paradiso.
Ed eccolo là, il DNA del surfista italiano. Ogni volta ci ripromettiamo di non entrare, ma quando ci incamminiamo sul pontile e sentiamo il profumo della salsedine spinto dal vento, ci facciamo fregare. Come Ulisse che per ascoltare il canto delle sirene si fece legare all’albero della sua nave, noi ci stringiamo il laccetto forte al piede e ci lanciamo alla ricerca di un’onda buona in mezzo a quel marasma in cui nessuno – a parte noi – vede una speranza.
È proprio qui che siamo cresciuti. Sono queste session in mezzo alla corrente che ci rendono forti. Contro tutto e tutti, il nostro piccolo stivale appoggiato in una pozzanghera chiamata Mar Mediterraneo, vanta un atleta nel World Tour che ha partecipato anche alle Olimpiadi e si è piazzato secondo nella gara più importante della storia del surf. In Italia il surf è ancora giovane, ma il mare è un’affare tinto di tre colori: verde, bianco e rosso. Da sempre.