Da quando il team di Tuttologic mi ha arruolato, ho avuto il piacere di intervistare diverse persone. Un messaggio per accordarci al volo sull’orario, videochiamata su Zoom, un’ora di chiacchiere e poi via a scrivere: nonostante ormai sia diventato qualcosa di ‘routine’, l’eterogeneità dei surfisti che ho coinvolto per i miei articoli ha sempre reso tutto molto stimolante.
Oggi vi racconto dell’ultima esperienza con Matteo Salandri e Vincenzo Ingletto, rispettivamente atleta e coach della nazionale italiana di adaptive surfing. Un mondo per molti sconosciuto, nonostante l’adaptive sia una delle milioni di declinazioni che il surf ha e che dovremmo conoscere. Questa intervista mi è rimasta particolarmente nel cuore: non tanto per l’argomento in sé (non voglio sfociare nel “pietismo”, come Matteo ha giustamente sottolineato in videochiamata), ma perché mi ha fatto rivalutare molti aspetti del mondo surfistico in generale. Insomma, è stata un’ora di chiacchiere illuminante, e spero di potervi trasmettere altrettanto attraverso le mie parole.
Adesso bando ai sentimentalismi e facciamo un salto indietro nel tempo. Dal 6 all’11 dicembre 2021 la splendida location di Pismo Beach, California, ha ospitato gli ISA World Para Surfing Championship, a cui ha partecipato anche la nazionale italiana grazie al supporto della FISW. Nonostante alla flotta azzurra mancasse qualche presenza di rilievo, e nonostante il poco tempo con cui il team ha preparato la competizione, possiamo ritenerci più che soddisfatti della loro performance. Un 14esimo posto generale è stato alleggerito dall’ottima prestazione di due matricole all’esordio: Matteo Salandri e Chantal Pistelli, entrambi arrivati sesti nelle rispettive categorie. Una menzione d’onore spetta anche al resto del team: a Lorenzo Bini e Matteo Fanchini come atleti, e a Tommaso Pucci, anche lui coach, che hanno in ogni modo contribuito all’eccellente prestazione del gruppo.
L’esperienza del mondiale
Avendo la fortuna di parlare insieme ad atleta e coach, dopo aver rotto il ghiaccio con qualche minuto di cazzeggio, son subito partito chiedendo a Matteo come avesse vissuto il suo primo mondiale. Lui, ex corridore di atletica leggera, non era sicuramente alla sua prima competizione: “La sensazione della gara era da un po’ che non la provavo. Quando mi hanno proposto di iniziare a fare surf non ne volevo sapere di partecipare alle competizioni, e invece è stato amore a prima vista”.
Fa poi un’osservazione molto interessante per quanto riguarda le discipline paralimpiche: “Se pensi al mondo paralimpico il tuo cervello si collega subito a Bebe Vio: è una grande atleta, ma credo che la spettacolarità del surf non abbia niente a che vedere con la scherma”. Non potremmo essere più allienati su questo punto con Matteo. Riprende poi il filo del discorso parlando dei mondiali: “Mi ha sorpreso che in queste gare c’era competizione ma allo stesso tempo nessuna rivalità. Qualora ci fosse stata, era comunque qualcosa di sano e costruttivo. Non a caso, ci si incitava a vicenda tra avversari”.
“Per quanto riguarda la mia performance sono felice perché non ho subito troppa ansia da prestazione. Al contrario, quando facevo gare di atletica ero molto più preso dalle emozioni. Tranne la prima heat, in cui ero leggermente nervoso, dopo ho affrontato la gara in scioltezza. Specialmente nella seconda batteria, in cui c’erano onde overhead, l’adrenalina mi ha permesso di staccare dalle emozioni negative e di surfare onde che non avevo mai affrontato prima”.
A questo punto interviene nella conversazione anche Vincenzo: “I ragazzi sono stati molto bravi nonostante il poco tempo in cui ci siamo ritrovati a dover preparare questo mondiale”. Continua strizzando l’occhio al suo atleta: “Matteo ti ha fatto capire che per lui surfare onde overhead è stato complesso, e conoscendolo so che lo è stato per davvero. Come ben sai Edo, le onde sono sempre diverse, a prescindere dallo spot in cui entri: a casa mia in una settimana posso trovare sette condizioni differenti”.
In seguito aggiunge che purtroppo non hanno avuto la possibilità di portarsi dietro la propria attrezzatura. Un peccato e sicuramente un ostacolo che non ha agevolato la performance degli atleti, dato che sappiamo quanto la confidenza con la propria tavola sia fondamentale per un surfista. Vincenzo spiega le difficoltà che ne sono derivate: “Surfisti esperti con tavole più corte in acqua si sono ritrovati avvantaggiati. Al contrario, surfare onde ripide e overhead con una tavola classica non ha agevolato alcuni del nostro team”.
Gli domando poi quali siano le prospettive per sviluppare insieme alla FISW le capacità di atleti dall’evidente potenziale come Matteo. Il coach ha le idee chiare: “Qualcuno dovrà stare attento perché stiamo strutturando un progetto da presentare alla federazione per stimolare una rapida crescita. Questo era soltanto l’esordio della nazionale adaptive italiana, e ad oggi ci sono tutti i presupposti per arrivare a far diventare il team azzurro una seria speranza in una prospettiva olimpica. Sono convinto che con tanto allenamento alle spalle potremmo arrivare lontano grazie soprattutto al supporto della FISW che, come fatto in passato, ci guiderà nell’organizzare raduni e nel partecipare a competizioni internazionali “.
L’egemonia statunitense e l’esordio tedesco
Dando un’occhiata alle classifiche, ho notato che negli anni due stati in particolare sono stati dominanti: la Spagna e gli Usa. Vincenzo mi illustra le motivazioni per cui questo accade da tempo nel surf adaptive: “Gli Usa avevano un team enorme. Noi che eravamo nemmeno la metà dovevamo puntare sul livello dei nostri atleti per posizionarci in alto nella classifica generale: ovviamente se arrivi in finale hai molti più punti per la tua squadra rispetto a uno che arriva ultimo. Mentre gli Usa, Spagna e Costa Rica si sono presentati con un team di 15-18 persone, noi eravamo solo con 4 atleti”.
La conversazione prosegue stringendo il focus sulla Germania, che al suo esordio è riuscita a posizionarsi dodicesima, due posizioni davanti all’Italia. “La nazionale tedesca è riuscita a piazzarsi bene grazie ad un atleta in particolare che si è classificato terzo: Ben Neumann. A livello tecnico, era evidente che con lui hanno lavorato su onde statiche per molto tempo”. Con mezzi del genere sappiamo tutti che l’approccio all’allenamento cambia, in quanto si ha la possibilità di poter lavorare in maniera ripetitiva, quasi scientifica, su ogni gesto tecnico. Continua Vincenzo: “A me e Matteo spesso incasina o la marea o il vento durante le sessioni di training, mentre un’onda statica permette di sviluppare molto di più la tecnica. Neumann non aveva di certo la visione dell’onda di un hawaiano o di uno spagnolo, però riusciva a fare manovre come 360 anche nella schiuma, valutate come ‘chiuse’ dalla giuria”.
Il rapporto coach-atleta
Essendo io stesso istruttore di surf, mi sono sempre posto il quesito se nell’allenare allievi con disabilità si debbano approfondire aspetti teorici o scientifici in particolare. Tuttavia, Matteo mi ha subito smentito dicendo che “in realtà non vedo troppe differenze rispetto alle indicazioni che si danno agli altri allievi”. Mi rivolgo quindi a Vincenzo, che continua sulla stessa linea dell’atleta: “La fortuna è nostra quando abbiamo la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo come in questo caso. Il limite non sta tanto nell’allievo per quanto mi riguarda, ma in noi istruttori”.
Vincenzo poi aggiunge: “In futuro dobbiamo far diventare ogni scuola italiana capace di allenare persone con disabilità, strutturando un protocollo che sia lo stesso ovunque”. Tornando da Matteo, gli domando se negli anni abbia lavorato con altri coach oltre a Vincenzo. La risposta: “A Roma ho surfato molto con Fabrizio Cimini del Banzai Sporting Club, e con i ragazzi di Alessandro Clinco dell’Ostia Surf. In Sardegna poi ho avuto la fortuna di allenarmi con Vincenzo e tutta la crew dell’Is Benas Surf Club, in primis Mattia Maiorca e Marco Fenu. Ho anche surfato diverse volte in Portogallo ad Ericeira con altri coach”.
Successivamente fa un’osservazione che mi ricorda di quando Vincenzo ha affermato che il limite, più che nell’allievo con disabilità, stia nel maestro. “L’inizio è sempre uguale perché mi tengono tutti sulle schiume. Devono prendere le misure, e spesso mi ritrovo a dover insistere per farmi portare in line-up!. C’è un centro che mi piace nominare sopra Porto dove hanno puntato molto sull’adaptive surfing. È lì che per la prima volta ho trovato un coach che mi ha detto: dai ti porto fuori”. Conclude: “Ne ho avute tante di persone che mi hanno guidato, e mi piace così perché la prossima volta che incontreranno allievi come me sapranno come comportarsi”.