“I surfisti fanno surf perché questa attività offre loro un’alternativa alla percepita banalità e scontatezza della vita quotidiana, ma soprattutto alla passività che scorgono nel comportamento del consumatore medio – e alla “ritualità” che caratterizza, in un certo senso, le code agli Apple Store all’uscita di ogni nuovo modello di iPhone, per fare un esempio. Il surf è in questo senso un modo per vivere davvero la vita, assecondando le proprie aspirazioni e il proprio autentico modo di essere, sottraendoli all’omogeneizzazione tipica della nostra società”.
Difficile non sentirsi chiamati in causa da questa descrizione estratta da “Surfers Paradise – Un’etnografia del surf sulla Gold Coast australiana” di Dario Nardini, surfista cresciuto alle pendici dell’Appennino Tosco-Emiliano con un Dottorato di Ricerca in Antropologia. Il 7 Novembre Dario mi ha scritto per presentarsi e presentarmi il suo libro.
Il punto di vista che un antropologo (e surfista, che non nuoce) può darci sul mondo del surf è estremamente lucido, ti apre la mente. Ci sono tanti aspetti particolari che facciamo fatica a spiegarci, comportamenti e fenomeni per cui è difficile trovare una ragione. La ricerca di Dario Nardini e le risposte che è stato in grado di darmi mi hanno illuminato. Ci sarebbe talmente tanto da dire che abbiamo deciso di riprendere il discorso con l’anno nuovo, probabilmente con un podcast dedicato. Intanto ho cercato di fissare alcuni passaggi di questo primo confronto.
Perché dici che il surf non può essere antropologicamente considerato un rito?
È evidente che il surf sia un’attività sociale ma lo spirito con cui i surfisti vanno in mare nasce dall’esigenza di recuperare un contatto autentico con sé stessi e con la natura, quindi il surf è un’attività che si fa prevalentemente a livello individuale. È questo che non è compatibile con il rito così com’è concepito nell’antropologia, perché il rito è per definizione una pratica collettiva. Il surf come tutti gli sport estremi nasce dalla voglia di emancipazione, dalla necessità che ha un individuo di uscire da una collettività che ci vorrebbe tutti uguali. Il surf è tutto il contrario del rito, da questo punto di vista.
Nella tua analisi del surf sulla Gold Coast fai una netta distinzione tra due tipologie di surfisti: quelli che rifiutano ogni forma di competizione formalizzata e di controllo istituzionale perseguendo un approccio più spirituale al mare e alle onde, che tu chiami soul surfers, e quelli che invece si dedicano con assiduità alle competizioni e si associano ai Boardriders Clubs. In Italia secondo te siamo più soul surfers o più surfisti da gare e club?
Per risponderti ti racconto di ciò che ho vissuto personalmente. Ho iniziato a fare surf nei primissimi anni 2000 perché per caso mi trovai a sfogliare una copia di Surf News. Ero a Firenze, nello skate shop da cui mi rifornivo. In quel numero di Surf News trovai una guida agli spot. Allora comprata una tavola mi diressi a Forte dei Marmi. Oltre allo skate praticavo sport di combattimento abbastanza seriamente e quel giorno al Forte rimasi stupito dalla quantità di facce incazzate che vidi in acqua. Pur frequentando palestre di boxe, MMA, judo e quant’altro, non mi era mai capitato di incontrare un ambiente sportivo così ostile. Quindi se devo dare una risposta ti dico che formalmente nessuno vorrebbe essere un surfista da Boardriders Club, perché dal punto di vista retorico non si aderisce a quei valori lì, ma poi gli atteggiamenti che ho riscontrato nella realtà delle cose dicono il contrario.
Per spiegare la passione dei surfisti nel libro scrivi che chi investe tante risorse in un’attività fisica lo fa perché questa è (o diventa) così significativa da costruire una parte fondamentale del suo mondo e della sua vita, uno degli orizzonti di realizzazione dei suoi desideri, delle sue ambizioni. Capisco quali possano essere le ambizioni di un surfista che gareggia e compete, ma quali sono secondo te i desideri e gli obiettivi di un soul surfer?
Un soul surfer scappa dall’idea di una vita prevedibile, è una necessità piuttosto comune nell’epoca contemporanea. Abbiamo un’idea della nostra società che ci assoggetta e ci rende tutti uguali in virtù delle logiche del consumo, del profitto, delle illusioni che derivano dalla pubblicità e dal marketing. Smarcarsi da questa prevedibilità diventa un’esigenza per chiunque di noi voglia diventare qualcuno. Non tanto per realizzarsi a livello sociale ma per sentirsi una persona particolare. Il surf è un ottimo modo per farlo, soprattutto in Italia dove il surf rimane un’attività non comune e decisamente cool.
Vorrei partire da un passaggio del libro che ho trovato molto significativo per introdurre la prossima domanda. Nel Capitolo 2 scrivi:
“Com’era stato possibile, per gli uomini che surfano, mantenere un atteggiamento di “dominio” e di esclusione nei confronti delle donne, in un’attività così scarsamente dipendente dai valori tradizionalmente e immediatamente attribuiti alla mascolinità nella cultura occidentale (la muscolarità, appunto, la forza fisica, eccetera) e così profondamente contraddistinta, invece, da valori più spesso attribuiti all’universo femminile (la grazia, l’eleganza, l’uso del corpo come veicolo espressivo, l’equilibrio), al punto di avvicinare il surf, anche nella concezione di tanti surfisti, a una danza?”
Il 90% dei praticanti del surf a livello globale sono uomini. Come siamo arrivati a questo punto?
È successo per due motivi a mio modo di vedere. Il primo è più intuitivo ed esplicito, ha a che fare con la competitività aggressiva e muscolare, che vira la parte estetica del surf su una parte più fisica, di potenza, che è richiesta per affermarsi nella lineup. Il secondo fenomeno che ha contribuito a tenere troppo a lungo le donne lontane dal surf dipende dalla costruzione sociale del rischio attraverso la quale il surfista è diventato una figura straordinaria, dotata di eccezionali qualità. Dico una costruzione appunto perché si tratta di un grande bluff: sai bene che il surf alla fine è una pratica statisticamente molto meno rischiosa di tante altre. Se vai in spiagge tranquille, come ce ne sono tante anche in Gold Coast, non rischi granché. Solo che la narrazione del surfista coraggioso ha attecchito plagiando l’idea del senso comune. Nel libro faccio l’esempio del rock jump, della pratica di tuffarsi dalla rocce per entrare nello spot. A volte è necessario, come a Snapper Rocks, dove peraltro se sbagli il timing puoi davvero farti male: lì sì che è rischioso. A D’Bah invece le onde sono facilmente raggiungibili remando sul picco dalla spiaggia, non c’è bisogno di tuffarsi dalle rocce, ma tanti ragazzi, e soprattutto i giovani, entrano dalla scogliera per mostrare la propria spavalderia.
Nel tuo periodo di studio in Australia sei riuscito a descrivere antropologicamente una correlazione tra il modo di interpretare il surf e la scelta delle tavole?
Ho avuto la fortuna di passare del tempo con Dick Van Straalen, leggendario shaper di Dave Rastovich. Il collegamento tra lo shape della tavola ed il tipo di approccio filosofico che si ha al surf è sotto gli occhi di tutti. Sulla Gold Coast a causa di un’eredità culturale mutuata dai lifeguards, che nella funzione del loro ruolo si impongono fisicamente sul mare, si ha una concezione dell’oceano come elemento da dominare. Di conseguenza vanno per la maggiore tavole super performanti che vengono viste soltanto come il miglior mezzo per raggiungere un fine.
Domanda d’obbligo, l’ultima: che mi dici del localismo?
Forse ti sorprenderà sapere che non ho avuto tanto modo di studiarlo sul campo perché in Gold Coast il localismo non esiste quasi più, ci sono troppi turisti in acqua per poter controllare la situazione. Soltanto Burleigh Heads rimane uno spot veramente localizzato. Per capire il localismo bisogna interrogarsi su come vengono attribuiti il merito e le precedenze. Ho trovato tre motivazioni comuni:
- La territorialità: nell’era della globalizzazione la necessità di chiudere e delimitare i confini territoriali è sempre più spinta.
- La protezione: proteggere una risorsa limitata come le onde.
- Il merito: per meritarti le onde devi versare una sorta di tributo attraverso la dedizione, lo sforzo, la capacità, gli anni di militanza. Tributi che tu paghi per avere quell’estasi che ti può dare l’onda del set. Nella concezione del localismo l’oceano ripaga il merito.