Gli sport individuali più di quelli di squadra richiedono una forza mentale non indifferente. Sei solo contro tutti, solo contro te stesso ed i tuoi limiti. All’inizio del Tuttologic Surf Podcast sono riuscito a fare delle belle chiacchierate con i coach più navigati del nostro paese, Nicola Bresciani e Lorenzo Castagna. Qui, in Italia, un surf coach allena veramente, insegna la tecnica e la strategia ad un giovane allievo. Lo stesso potrei dire del confronto con Jesus Guerra di Mysurfcoach, che lavora con atleti europei ad un livello superiore, ma pur sempre dei surfisti da costruire.
Non ho ancora avuto l’opportunità di intervistare un coach con esperienza nel Championship Tour, ma ho letto e sentito le risposte che hanno dato ad altri. In particolare durante la straconsigliata serie tv Make or Break il coach di Gabriel Medina, Andy King, dice parafrasando: “Non posso insegnargli nulla, sono qui per assisterlo mentalmente e prepararlo ad ogni evenienza di gara”. Testa e strategia, il mental coaching nel surf sarà sempre più presente. Leonardo Fioravanti ha confessato di recente a LEOnde del Tour di aver scelto un mental coach: “Mi sta aiutando molto: non solo per la mia carriera agonistica, ma anche nelle scelte di vita”.
Una lunga premessa per arrivare a presentarvi Nicoletta Romanazzi, mental coach e trainer del respiro che lavora da anni con super atleti come le medaglie d’oro a Tokyo, Marcel Jacobs e Luigi Busà, e una sfilza di altri calciatori e sportivi di rilievo.
Quanto conta la testa nello sport professionistico? Riusciresti a darmi una percentuale?
Gli studi dicono 75, 80% e mi trovo assolutamente d’accordo. Se hai una buona testa anche senza grandissimi talenti riesci a portare a casa dei bellissimi risultati.
Nel surf abbiamo Kelly Slater che a 50 anni ancora non si dà per vinto. Penso anche ad altri grandissimi dello sport, come Buffon che ancora gioca, oppure Totti che ha fatto enorme fatica a lasciare. Come si gestisce il momento critico del ritiro? Esiste il timing giusto per smettere? Hai mai aiutato un atleta a capirlo?
Il problema di quando si fa fatica a smettere, e questo potrebbe valere pure per le mamme che lasciano i figli ormai diventati grandi, nasce quando associamo la nostra identità a quello che facciamo. Tipo: “io sono un mental coach”. No, è sbagliato: “io faccio il mental coach”. Se scegli di continuare perché ti piace lo sport che fai, devi farlo con un’altra consapevolezza sapendo che i tuoi obiettivi cambieranno.
Ti presento un caso: Leonardo Fioravanti. Spesso Leo nelle sue heat aspetta molto le onde migliori, un’attesa che non sempre paga. Questo atteggiamento cosa ti porterebbe a pensare?
Faccio fatica a darti una risposta perché io farei miliardi di domande. Perché sceglie questa strategia? Che cosa succederebbe se l’onda che sta aspettando non arrivasse? Qual è il motivo per cui decide di aspettare anche se non sempre funziona? Magari è una zona di comfort. Magari invece nel suo carattere c’è una parte perfezionista molto sviluppata. Ma il perfezionismo è pericoloso perché se le cose non ti riescono perfette, finisci per non farle proprio.
L’ansia da prestazione è più difficile negli sport individuali come il surf o negli sport di squadra?
Negli sport individuali.
Però negli sport di squadra oltre a te stesso deludi anche gli altri, i tuoi compagni.
Sì ma la squadra può andare a compensare certi difetti, riesce anche a farti dare quel qualcosa in più che da solo non daresti. Penso al karate: nel kumite in alcune gare vanno a squadre, ciascuno fa dei combattimenti e poi si sommano i punti dei vari incontri. In alcuni casi vedi chi nell’individuale non ha fatto un granché riuscire a tirar fuori il massimo perché si sente protetto dalla squadra. È una sorta di scusa per allentare le tensioni: non lo sto facendo per me, lo sto facendo per qualcun altro.
Mi aspettavo questa risposta ma speravo che non fosse così, perché basandomi sulla mia esperienza di squadra nell’errore ti senti responsabile per tutti, quindi pesa più che se sbagliassi solo per te stesso…
Certo quello è molto faticoso da gestire mentalmente.
Parliamo di respiro adesso. Quando sono in mare e mi capita di prendere un’onda grande, mi rendo conto che mentre sto surfando smetto di respirare. Vado già in apnea. Negli sforzi di resistenza come il nuoto o la corsa è più facile gestire questo aspetto, perché prendi un ritmo e ti muovi di conseguenza. Nel gesto esplosivo di prendere un’onda mi rendo conto di smettere di respirare. Che consigli sapresti darmi?
Purtroppo do per scontato che quando facciamo dei grandi sforzi finiamo per andare in apnea. Quando nasciamo abbiamo un respiro fantastico: se guardi un bambino respirare, ha un respiro bello pieno, gonfia la pancia e fa tutto in maniera naturale. Poi nel tempo succede che tutte le volte che ci troviamo difronte ad un’emozione che facciamo fatica a gestire, andiamo in apnea. Perché? Perché andando in apnea abbia la sensazione di sentire meno. Quando sbatti contro uno spigolo? Che fai? Trattieni il respiro, blocchi il diaframma. In quel momento in effetti senti meno dolore, solo che quella roba lì poi rimane all’interno del corpo. Quindi finisce che hai viziato il respiro, ti sei allenato a stare in apnea. Ci sono dei vantaggi fisici enormi nel tornare a respirare pieno, come facevamo da bambini. L’ossigeno è l’energia del nostro organismo e le cellule più ossigenate funzionano meglio. Il sistema circolatorio aumenta le sue capacità perché il diaframma pompa tanto sangue, anche più del cuore. Il 75% delle tossine vengono eliminate dal corpo umano respirando.
E quindi come fai ad insegnare il respiro?
Io insegno un esercizio che allena a respirare così come bisognerebbe respirare, un esercizio da ripetere tutti i giorni per 3/4 minuti al giorno. Poi prima di una gara importante consiglio sessioni che vanno da 10 a 30 minuti per cui vai a creare un credito di ossigeno, una bella scarica di energia potente. Questo è anche per il modo più veloce per raggiungere la miglior concentrazione. Ogni tecnica di respiro porta dei risultati specifici. Allenando il respiro ti potrai accorgere immediatamente di quando non stai respirando.
Il background culturale dell’atleta influisce sulla sua capacità di gestire le difficoltà e rispondere alle sconfitte?
Se i ragazzi arrivano da una situazione particolarmente complicata e culturalmente bassa, gli viene il complesso di arrivare da lì. Quindi magari si preoccupano di non riuscire a comunicare bene durante l’intervista e finisce che si chiudono.
Però chi viene fuori da situazioni difficili ha un’altra fame di solito…
È vero, è così: ci sono aspetti positivi ed aspetti negativi, come per ogni cosa. Ho alcuni atleti top che hanno un sé primario, uno di quelli che abbiamo messo al governo della nostra vita, che vuole fargli assolutamente raggiungere determinati obiettivi. In certi casi questo slancio rischia di farti arrivare al punto in cui non ti diverti più, cominci ad irrigidirti, cominci a farti male, arrivano gli infortuni. Quindi in certe situazioni, quando mi chiamano atleti che vogliono il mio aiuto per aiutarli a vincere a tutti i costi, io faccio il lavoro opposto: vado a tirar fuori la parte più spensierata e di cazzeggio dell’atleta. E poi sai che succede? Che arrivano risultati ancora migliori perché i ragazzi ritrovano il piacere di riposarsi, di fare un aperitivo con gli amici, di staccare più spesso. Ci vuole equilibrio per tornare a farti amare lo sport a volte.
Qual è lo sport nel mondo in cui si è più consapevoli dell’importanza del mental coaching?
Il tennis ti direi, tennis e poi il golf. Sport fortemente mentali in cui si è capito che è necessario avere un mental coach nel proprio team. Mi rendo conto che spesso non si ha la giusta consapevolezza…penso al famoso “ero in giornata” che ogni sportivo sulla faccia della terra tira fuori per spiegare una performance brillante: ma che significa “ero in giornata”? Lo stato della massima concentrazione ha delle caratteristiche precise che ti permettono di raggiungerlo, ma va allenato.
Se potessi dirmi il nome di un atleta nel mondo con cui ti piacerebbe tantissimo lavorare, chi sceglieresti?
Sicuramente un tennista. In questo momento mi ispirerebbe Matteo Berrettini, ma in assoluto il sogno sarebbe Novak Djokovic.
Se vi è piaciuta l’intervista sul mental coaching nel surf con Nicoletta Romanazzi, potete acquistare il suo libro disponibile da poche settimane su tutte le piattaforme.