In Norvegia capita raramente di incontrare delle persone per strada: che tu sia in macchina oppure a piedi per le vie dei piccoli centri abitati, semplicemente non c’è gente. D’altronde con 17 abitanti per chilometro quadrato la Norvegia è il terzultimo paese d’Europa per concentrazione demografica. Il maggior numero di persone raggruppate nello stesso posto le abbiamo incontrate per ironia della sorte sulla spiaggia dello spot più famoso della zona.
Ma dove si nascondono gli abitanti di Ålesund? Probabilmente nelle case accoglienti e curate che arricchiscono il paesaggio, case spropositatamente più grandi di quanto siamo abituati a vedere nel resto d’Europa. Siccome qui il clima spesso ti obbliga a stare al riparo, ha senso investire in abitazioni spaziose e confortevoli. Mi sono sorpreso anche a fare la conta di stadi, arene e palazzetti sportivi: lo sport in Norvegia è un’istituzione. I bambini praticano ogni genere di attività, soprattutto il calcio. Non stupisce perciò che Erling Haaland, attualmente il centravanti più forte del mondo, sia cresciuto in questo paese in cui le condizioni atmosferiche mutano come l’umore di un adolescente in piena tempesta ormonale.
Il team
Ian, Matteo e Filippo hanno da poco superato la fase teenager ma sulla tempesta ormonale mi riservo di sospendere il giudizio. Con i tre giovani surfer ed il team Bear al completo siamo partiti da Milano una mattina di inizio aprile. Sveglia prestissimo, come di consueto. Macchine cariche di bagagli e cuori carichi di speranza sulla via dell’aeroporto. Dobbiamo proteggerci dal freddo, in acqua e fuori, ma dobbiamo soprattutto difenderci dalla possibilità non così remota di tornare a casa sconfitti, a mani vuote. Senza onde. Può succedere, ma la previsione di una potente mareggiata in arrivo da sud-ovest ci esorta alla positività.
Il viaggio
Dopo un Milano – Amsterdam piuttosto turbolento e uno stop forzato a Schipol causa vento forte, iniziamo la discesa verso Ålesund e lo scenario che ci si apre davanti agli occhi è mozzafiato. Mettendo insieme le esperienze di tutti noi, compresi due viaggiatori di lungo corso come Ale Dotti e Filo Orso, nessuno aveva mai visto un roba simile prima. Dall’alto la Norvegia è un puzzle simmetrico di mare e montagne, che interagendo tra loro disegnano geometrie imperfette ma incredibilmente armoniche. “Qui le onde non le farà mai”, irrompe bruscamente Matteo ridendo. Ha rovinato la poesia del momento ma sono fan del realismo cinico e schietto, così mi faccio rapire dal pensiero e lo seguo, provando ad immaginare come sarà lo spot su cui riponiamo le nostre migliori aspettative.
I primi contatti con il mare artico
Moriamo dalla curiosità di vedere questo spot e siccome fa buio alle 22, dopo esserci sistemati in una gigantesca villa presidenziale, abbiamo ancora il tempo di andare a buttare un occhio. Lo spot si trova a 20 minuti dalla nostra base a Giske, isola intitolata ad una famiglia aristocratica che dall’epoca vichinga fino al 17° secolo ha rappresentato per Ålesund ciò che i Medici sono stati per Firenze. Per arrivare allo spot dobbiamo raggiungere un’altra isola e con grande stupore scopriamo che in Norvegia anziché costruire dei ponti preferiscono scavare delle gallerie sotterranee. La più profonda che percorriamo per arrivare allo spot va oltre 150 metri sott’acqua, la discesa per raggiungere il fondo del mare è talmente ripida da far impressione. Evidentemente costa meno mantenere un tunnel subacqueo che un semplice, scontatissimo ponte. Chissà. Dopo aver avvistato montagne innevate, porticcioli caratteristici e altre casette colorate siamo arrivati. Confermiamo in coro quanto sopra: “Qui le onde non le farà mai”.
Il point dove dovrebbe rompere l’onda si trova esattamente sotto un’imponente montagna. In fondo alla linea dell’onda c’è una spiaggia di grossi massi neri e scivolosi, che sarà un incubo evitare quando e se si verificherà l’occasione di surfare. Il paesaggio è emozionante, ti trasporta in un’altra dimensione. E se ci aggiungi anche un set di onde che succede? Eh, speriamo di poterlo raccontare. Sulla via del ritorno ci accorgiamo di una rastrelliera di tavole posizionata nel giardino di una delle solite “umili casette” locali. Filo con la faccia tosta di chi ne sa, accosta e suona il campanello. Conosciamo così il primo surfista locale, Olav. È esattamente come ve lo state immaginando: biondissimo, sorridente ma timido, confuso dalla situazione. Da Olav otteniamo comunque un paio di notizie preziose. Quale volete sapere prima? Quella buona o la cattiva notizia? “L’acqua in questi giorni è intorno ai 4° gradi (Surfline diceva 6), si sta bene” – sentenzia Ullabulla. Questa era la parte brutta, mentre quella bella è che “sì, nei prossimi giorni secondo me si surferà, dovrebbe arrivare qualche onda”. Avanti senza paura, tanto il freddo è sopravvalutato.
Ma le onde le fa o no?
Siamo andati in Norvegia per girare un video di surf, che purtroppo per voi uscirà solo verso la fine del 2024. Sarà epico grazie anche alla regia di Alessandro Dotti e alla presenza delle new entry del team Bear, Matteo Calatri e Filippo Marullo. Sapevamo che Marullo col long avrebbe potuto salvare le riprese di surf in caso di ondine microscopiche, la vecchia truffa andava comunque portata in salvo. Diciamo che a conti fatti Filippo Marullo, il bro, è stato il vero jolly del trip, in acqua e soprattutto fuori dall’acqua. Raramente prendo appunti durante i viaggi di cui dovrò scrivere ma questa uscita di Pippo meritava di essere ricordata.
Immaginate una strada che si inerpica nel nulla tra le montagne e il mare, Filippo la percorre facendo la serpentina in skate e poi si ferma, non lontano da dove eravamo io, Alessandro e Tommaso con le telecamere. Prende lo skate in braccio e simula il gesto della schitarrata: “Raga ma Jimmy Hendrix suonava la chitarra o la techno? Non mi ricordo”. Signore e signori questo è Filippo Marullo, campione italiano di longboard e regista di video trap, un innovatore che vorrebbe conciliare lo stile del surf classico con le vibes tamarre dei suoi amici venuti fuori dai quartieri difficili di Milano.
Pippo si prodiga per essere il prima a saggiare il Mare di Norvegia, è lui la nostra cavia. Sono le 20 del terzo giorno e qualche timida schiumetta frange sotto la montagna. In acqua tre persone, tre eroici vichinghi. Marullo torna dal parcheggio bardato fino ai denti: calzari e guanti 5 millimetri, muta da 6. Cappuccio obbligatorio per noi foresti, non per i locali: qualcuno fa senza. Filippo riesce a superare indenne i roccioni che sbarrano l’entrata in mare e raggiunge la lineup. Rema la prima sinistrina, un mezzo metro choppy. Passetto, incrocia, hang five. Torna indietro, avvicina i piedi e stende le gambe. In spiaggia ridiamo divertiti. Nessuno ne parla ma sappiamo bene che da questa prima session aspettiamo solo una risposta: fa freddo?
Una 6.4mm e passa la paura
Fa freddo quindi? No, onestamente no: nessuno ha mai sentito freddo in acqua. Eravamo tutti con mute 6 mm di Simpel, un brand emergente che ha supportato la nostra spedizione. Tutti tranne Matteo per la verità, che ha utilizzato una 5.4. Lui però è lo stesso che il giorno in cui abbiamo fatto doppia session e surfato anche a pranzo, si è fatto il bagno nudo prima di tornare a casa. Filo Orso sosteneva che con una 5.4 saremmo stati bene perché in effetti si remava molto. Il cappuccio integrato nella muta è stato fondamentale dato che lassù si surfa sempre col vento, così come bisogna assicurarsi di avere calzari e guanti 5 mm, non 3. Delle quattro volte che siamo andati in acqua, la session più breve è durata 2 ore e 13 minuti. La più lunga oltre le 3 ore. Remare con le moffole è una tortura, la cosa peggiore che abbiamo mai provato. Se per aumentare la trazione ti sforzi di tenere tutte le dita sempre in tensione, alla lunga senti dolore ai tendini del polso. E c’è di peggio: appena inizi a muoverti hai la sensazione che ti sudino le mani. Quando togli i guanti di neoprene infatti hai le mani cotte, come se avessi fatto un bagno caldo lungo due ore. Però no ragazzi, in generale non fa freddo. Solo quando ti cambi, prima o dopo la session. Infatti è consigliato mettersi la muta a casa e salire in macchina col poncho. Fare surf in Norvegia è altamente fattibile
Il quarto giorno è quello che aspettavamo con più ansia. Ci svegliamo presto per ritrovarci tutti insieme a colazione intorno ad un tavolo come nei film americani. In effetti casa nostra ricorda un po’ quella del reverendo Cameron, il pastore protestante di 7th Heaven (cit. Filo Orso). Matteo che sta affrontando una dieta iperproteica da man vs food ingurgita qualcosa come 7 uova e non so quanti grammi di riso. Quel ragazzo è inarrestabile, ha una missione. Usciamo tutti già con la muta indosso e voliamo verso un destino che ci sorride.
Il mare è mezzo attivo ma le fa. Set altezza testa, non è per niente malvagio. È sempre lei, la sinistra della sera prima, che però comincia a mostrarci il suo vero potenziale. Partenza morbida ma se parti un pizzico più interno puoi già attaccare la prima sezione. Poi smoscia, c’è da stare vicino alla schiuma, lavorarsela bene. A metà si rigonfia e concede spazio per cut-back o entrate verticali a seconda dei casi, non dipende solo dalla marea. Da metà a fine onda compaiono sassoni all’improvviso come le talpe nel gioco “Acchiappa la Talpa”. Mi piace tracciare parallelismi tra le onde che surfo in giro per il mondo e quelle di casa e questa sinistra mi ricorda la sinistra del Marangone, spot salvavita all’uscita di Civitavecchia Sud. È lunga e divertente, non desideravamo di meglio. Zero aspettative, massima resa.
I surfisti norvegesi sono surfisti adriatici all’ennesima potenza.
Prima delle conclusioni vorrei spendere due parole sulla comunità dei surfisti locali. Abbiamo incontrato ragazzi accoglienti e disponibili, felici di condividere le proprie onde con una crew di amici venuti da lontano. Il livello medio è abbastanza basso ma siamo rimasti favorevolmente sorpresi da un paio di individualità niente male. L’età media della popolazione dei surfisti locali è intorno ai 30, 35 anni: come ci ha confermato la famiglia italiana proprietaria del ristorante che ogni sera ci deliziava con delle prelibatezze (grazie Nonna Lina!), qui la maggioranza dei giovani si dedicano agli sport tradizionali. Comunque il giorno più crowded eravamo una ventina in mare, mentre altre volte abbiamo surfato soli. Tuttavia nessuno ha mai dovuto aspettare le onde.
Le onde in posti freddi sono il futuro del surf
Al termine di un surftrip inusuale e dall’esito incerto come questo è scontato chiedersi se ne sia valsa la pena. La vera domanda è: lo rifaresti? Sì ma non qui, non nell’area di Ålesund. Perché stavolta c’ha detto veramente bene. Abbiamo surfato 3 giorni su 9 ad aprile, abbiamo intercettato casualmente una delle ultime mareggiate invernali dell’Atlantico. Il clima è stato clemente nella fase centrale del viaggio, una finestra di sole e temperature relativamente miti tra la neve del primo giorno e la bufera con pioggia e vento a 40 nodi degli ultimi due giorni. Abbiamo avuto solo un assaggio di cosa significhi il maltempo alle porte del Circolo Polare Artico, la dimostrazione tangibile del perché sia tanto importante avere case spaziose e confortevoli. È stata una spedizione vincente alimentata dalle energie positive del gruppo: sono certo infatti che il piglio con cui affronti un’esperienza del genere faccia tutta la differenza del mondo.
Le onde in acque fredde sono il futuro del turismo del surf, lo posso dire con certezza dopo aver passato tre ore a mollo nel Mare di Norvegia. La tecnologia delle mute oggi alla portata di tutti permetterà ai surfisti più curiosi e motivati di guadagnarsi ancora un posto al sole tra onde immacolate e paesaggi alla Chris Burkard. Oddio, sul sole non me la sento di garantire, ma posso assicurarvi che con la giusta attrezzatura il freddo è decisamente sopravvalutato. Farvel Norge!