di Diego Ciamarra
Mentre l’aereo bucava il tetto di nuvole che copriva il sole calante, generando soffici riccioli d’umidità condensata, fantasticavo, ripensando all’incredibile anno che avevo appena vissuto. Tutto era iniziato rincorrendo un lavoro in fattoria, affascinato da quella dura esperienza all’aria aperta e dai soldi che prometteva un’esperienza così ostica, ma soddisfacente. Questa ricerca mi aveva fatto rotolare sempre più a nord di quell’immensa isola che è l’Australia.
Concentrato nel mio obiettivo lavorativo ero sempre più dimentico di ciò che mi aveva attirato nella “Land Down Under”. Nella cameretta d’infanzia immaginavo una vita rilassata, a contatto con la natura, libero dagli obblighi e dalle aspettative, godendo di quella nuova passione con la tavola da surf che avevo solamente potuto assaggiare in una veloce settimana sull’oceano. Fantasticavo di accampamenti su selvagge spiagge bianche riscaldati da un falò, con massicci 4×4 a limitare il perimetro mentre perfette onde glassy srotolavano davanti a noi.
Una folgorazione sulla via per Margaret River
Così, dopo l’ennesimo mese speso a lavorare nel riarso deserto australiano, avendo racimolato un bel gruzzolo, mi ero finalmente deciso a scendere a sud, verso uno sconosciuto piccolo paesino costiero di viticoltori chiamato Margaret River.
Le immagini di quei rimanenti mesi scorrevano veloci davanti ai miei occhi sognanti mentre sedevo sullo scomodo sedile di quell’aereo diretto verso casa, l’Italia. Quell’esperienza mi aveva stravolto, cambiato, arricchito in tanti di quei modi che stentavo a riconoscermi nell’immagine di quell’incosciente ragazzo partito con un biglietto di sola andata un anno prima.
Ma il dono che più gelosamente custodivo era un nuovo linguaggio. Non quella lingua musicale che è inglese, s’intende, mi riferisco al linguaggio del mare. La capacità di dialogare con l’acqua, che volubile vuole essere sedotta, capita. Del resto il suo è un carattere difficile. È irrequieta nei suoi repentini sbalzi d’umore, irascibile nella sua furia vendicativa che sommerge colui che ne ha scatenato l’ira, o l’impudente che si approccia alla sua cristallina sensualità senza il dovuto rispetto. Margaret River mi aveva impartito le lezioni più dure della mia giovane vita. Sulle sue coste esplodeva tutta la ferale potenza prodotta dai Roaring Forties e dai Furious Fifties, dei venti che come un’irosa mano celeste scuotevano, tiravano e sospingevano le profonde acque dell’oceano.
Non pretendevo di aver carpito tutti i segreti del mare, ma ero sicuro nel mio intento di volerne sapere di più, di tuffarmi più a fondo nei suoi sommersi misteri. Consapevole di questa volontà, cercavo di immaginare come avrei potuto tener viva questa necessità di scoperta in quel piccolo, quieto e solare bacino d’acqua che è il Mar Mediterraneo. Non conoscevo nessuno che surfasse sulle coste italiane, non me n’ero mai interessato. Nella mia ignorante arroganza cittadina avevo sempre associato lo sport alla montagna. Vivendo a Milano mi era sempre sembrato naturale fuggire sulla rocciosa corona d’Italia, le Alpi, evitando di chiudermi in un’umidiccia e soffocante palestra sovraffollata. Il mare mi ricordava quelle brevi vacanze estive spese in quel passatempo così in voga negli adulti, certificato come la più grande rottura di palle e tortura autoimposta sul pianeta terra: friggere stesi sotto il sole come cotolette impanate. Ero così curioso di scoprire cos’avesse da offrire il mio paese dopo aver navigato nell’abbondante costanza delle onde australiane.
Habemus surf: l’Italia s’è desta!
Dopo qualche settimana dal mio arrivo, svolti i piacevoli doveri familiari, le mappe meteo si stavano finalmente tingendo di rosso. Con qualche amico sequestriamo il camper di famiglia, carichiamo alla rinfusa tavole, mute, paraffina, ponchi e partiamo guidati dalla curiosità di scoprire se fosse realmente possibile surfare, ma soprattutto motivati dallo sforzo di mantenere vivo quello stile di vita nomade, spensierato e naturale. Al risveglio la sorpresa: il surf in Italia era vivo! Direi più che vivo a giudicare dalla quantità di persone che si apprestava ad entrare in acqua in quell’esposta baia ligure. Combattuto tra la gioia di vedere così tante persone con cui condividere quello sforzo rigenerante, quella pura sensazione di libertà, e l’agitazione per quell’affollamento indisciplinato, mi tuffo in acqua.
Altro che quieto bacino. Altro che tranquillo specchio d’acqua dove mollare i bimbi sul bagnasciuga mentre si rosola sopra sdraio plastificate. Il mare era un ribollire di schiuma. Le onde erano overhead e nonostante mancassero di quella solida energia oceanica, non erano da sottovalutare. Il ritmo del loro incedere era diverso, più rapido e scostante e questo rendeva difficile prevederne il comportamento. Cercavo quindi di non distrarmi troppo mentre sedevo nella lineup, rapito dall’atmosfera magica creata dal puzzle di colori che gli edifici di quel tipico borgo ligure creavano come sfondo. Ad incorniciare il paesino si stagliavano delle verdi montagne, che solide affondavano le loro radici di roccia dentro quel mare agitato.
Mentre sedevo sulla tavola in contemplazione mi interrogavo su come quella sonnolenta atmosfera paesana italiana, ricca di storia e di tradizione, si potesse sposare con l’anarchica volontà di ribellione, che nelle sconfinate e selvagge spiagge australiane avevo associato al surf. La motivazione era di cercare lo spot più remoto, più isolato, non la focacceria più fornita, o il bar con l’espresso più buono. Mi sembravano due mondi inconciliabili. Forse però, l’incontro tra queste realtà poteva generare un miscuglio di valori unico. L’incostanza delle onde affamava anche il surfista meno incallito, ma nonostante qualche caso isolato di sovreccitazione, la possibilità di immergersi in quell’energia liquida diventava un evento, una festosa possibilità di condivisione, d’incontro. La spiaggia si ridestava. Si dimettevano rigidi abiti da ufficio inamidati, il brutto muso da guidatore cittadino e si godeva dell’aria aperta, di una pizza nella piazza del paese seguita da una fresca birra sulla spiaggia.
L’ultimo riflesso rosso del sole tingeva le onde regalando la segreta speranza che potessero tornare presto a frangersi, incoraggiando i cuori dei surfisti Italiani a tener duro nell’attesa della prossima mareggiata. Accomunati da una vita costellata di tutt’altre preoccupazioni, in cui il mare non è il protagonista, ma la segreta comparsa.
Una meravigliosa comparsa. Adesso ho capito cosa significhi fare surf in Italia.