“E se dovessi morire oggi? Proprio mentre stai leggendo queste parole, potresti sentire un leggero dolore al petto oppure alla testa. Nel giro di poche ore, potresti essere morto di infarto o per via di un’emorragia celebrare. Magari pensi che questo non potrebbe mai accadere proprio a te, ma come afferma la Bibbia la vita è un vapore che appare per un po’ di tempo e poi svanisce”. È inizio febbraio, c’è il sole. Sto camminando sul lungomare di Oceanside quando un ragazzo di
colore sulla trentina mi consegna un depliant a quattro facciate. Sulla copertina è raffigurata la morte come uno spirito incappucciato con la falce in mano. Il disegno è accompagnato da una scritta a caratteri cubitali: “Death, it happens every day”. Apro il depliant e la predica comincia con il lugubre pensiero che la morte possa assalirmi proprio oggi, mentre passeggio in grazia di dio sulle rive dell’Oceano Pacifico. Ma forse dio non guarda i suoi fedeli, forse dio non sa che i volontari della West Coast Baptist Church di Oceanside distribuiscono ai passanti volantini del genere. Ma poi che ne so io di dio: chi sono io per parlarne? Posso parlarvi però del senso di smarrimento che ho provato in quell’esatto momento, e nei minuti seguenti, nel guardarmi attorno.
I contrasti della società americana
Bellissimi ragazzini vestiti da surfisti studiano attentamente le onde, confrontandosi con coach e filmer, mentre i genitori lavorano al pc in van full optional. Pochi metri dietro di loro un barbone alterato dall’effetto di qualche sostanza viene ammanettato e sorvegliato a vista dalla polizia. Alla mia sinistra un gruppo di anziani, uomini e donne, balla sulle note di una musica dance sparata a tutto volume da un boombox, oggetto old school almeno quanto i coloratissimi outfit degli arzilli vecchietti. La cosa interessante è che nessuno si cura del giudizio altrui, le persone manifestano la propria identità in piazza senza la minima paura di sembrare snob, esaltati o stravaganti. In questa mattina di febbraio sulla spiaggia di Oceanside trionfa la libertà d’espressione, così il concetto stesso di normalità perde di significato. In mezzo al caos si nasconde il genio creativo, il caos è terreno fertile per menti fuori dagli schemi che non devono fare i conti con le pressioni sociali che subirebbero altrove. Non è un caso che la maggioranza delle nuove mode arrivino quasi sempre d’oltreoceano.
Il surf per i californiani è una ragione di vita.
Come anche il surf d’altronde, partito proprio da qui tra gli anni ’50 e
’60 dello scorso secolo. Tuffarsi con una tavola tra le onde era in origine un modo per evadere dalle responsabilità, un moto di ribellione. Il surf era controcultura.
Il surf è ancora presente nella vita degli abitanti della California, ma oggi uscire in mare con una tavola non è più una prerogativa di chi vuole distinguersi e sfuggire alle convenzioni sociali, anzi. Surfisti di ogni genere, età e classe sociale abbracciano questo stile di vita per trascorrere momenti indimenticabili tra le onde. Come ci spiegava Alessio Poli, ex nazionale italiano che vive vicino San Diego da oltre 10 anni, in California la funzione di piazza intesa come luogo d’incontro viene assolta dal “parking lot”. Il parcheggio difronte allo spot è un microcosmo fantastico, che vale la pena interpretare in chiave sociologica.
Prendi il Cardiff State Beach Parking, il parcheggio dello spot di Seadide: suv e pick-up sovradimensionati scaricano frotte di bambini e adolescenti che invadono la lineup, giovani imprenditori di successo si confrontano sull’ultima gara di surf disputata dai figli. In disparte, nell’angolo di “the lot”, Johnny Seaside spazza per terra e libera l’asfalto dalla sabbia portata dal vento. Johnny è un’istituzione. Abbronzatissimo e atletico, avrà una settantina d’anni. È una sorta di guardiano dello spot, ha occhi e orecchie ovunque. Non surfa più ormai, ha smesso, ma passa comunque le sue giornate nel parcheggio di Seaside. Nonostante l’abbia visto soltanto un paio di volte, gli sono debitore: dopo la session d’esordio
sulla sinistra del celebre reef break, ho dimenticato la muta bagnata sul muretto su cui mi ero cambiato. Me ne sono accorto con un paio d’ore di ritardo, ma quando ho chiesto aiuto ad Alessio, lui senza esitazione ha risposto: “Non preoccuparti: se la muta non c’è più l’avrà presa Johnny Seaside”. E così è stato. Grazie Johnny.
Il pomeriggio torniamo lì sperando di incrociare Rob Machado e Damien Hobgood, presenze fisse a Seaside. Niente purtroppo. In compenso in acqua c’è Tanner Gudauskas che le sta spaccando con un prototipo di tavola che ha shapato per sé. Sarà buono quel fish? Ho come il sospetto che uno con quel talento potrebbe fare la sua sporca figura anche su un ferro da stiro.
Onde costanti e tavole alternative: combattendo la noia della perfezione
Ho subito capito che le onde della California sono il campo pratica ideale per testare tavole da surf di ogni tipo. Adesso mi è chiaro il motivo per cui gli shaper californiani abbiano la perversione per design innovativi e bizzarri: sperimentare qui è l’unico modo per non farsi passare la voglia. Perché parliamoci chiaro ragazzi, oggettivamente la perfezione annoia. Onde facili e rilassate ovunque, tempi di attesa mediamente lunghi, nessuna particolare preparazione fisica richiesta per poter
stare in acqua.
Fucina di talenti, tra tradizione e rivalità.
Ogni città costiera con una solida tradizione surfistica ha la sua identità culturale. Mille storie dentro la storia stereotipata del “Golden State”, scavare fino alle radici sociali di luoghi di culto come San Clemente, Malibu o Santa Cruz ci aiuta a capire fenomeni di costume come la 2% Union. Partiamo proprio da San Clemente, deliziosa cittadina a nord della base militare di Camp Pendleton, centro d’addestramento dei Marines. San Clemente ha dato i natali a ben cinque surfisti qualificati al CT 2024, tutti cresciuti allenandosi a Trestles, unica sede delle Finals da
quando la World Surf League ha varato il nuovo format. Guidando tra le caratteristiche vie della città è facile spottare le insegne dei più famosi brand di tavole: Lost, Album, Stewart, Patterson, Hobie. Questo è il centro del mondo del surf e chi lo vive ne è consapevole.
La cantera di San Clemente sforna ogni anno una miriade di ragazzini terribili fatti con lo stampino, tutti figli di Kolohe Andino e cuginetti di Griffin Colapinto. Vestono alla stessa maniera, fanno homeschooling, vanno a surfare a Trestles in e-bike. Non dimentichiamoci che San Clemente è O.C. 34 chilometri più a sud, esattamente dove finisce l’area militare di Camp Pendlenton, si trova Oceanside. Una città prevalentemente abitata da persone del ceto medio-basso, i cosiddetti “blue collars”. Oceanside è dove mi trovavo all’inizio di questa storia, parliamo del luogo che una futura campionessa del mondo come Caitlin Simmers chiama casa. La Simmers rappresenta perfettamente lo spirito di Oceanside: quando le onde facevano schifo, ma schifo-schifo, Caitlin passava interi pomeriggi a fare skate al Prince Park, mentre una sua omologa di San Clemente magari era a Kandui con la famiglia.
È un derby spietato, uno dei tanti che si disputano nel campionato dei Boardriders Club, una lega in cui ci si gioca lo scettro di miglior città surfistica della California. A San Clemente e Oceanside si aggiungono squadre tradizionalmente competitive come Santa Cruz o Malibu, altre surf city con storie opposte ma ugualmente interessanti. A Santa Cruz la temperatura dell’acqua non va mai oltre i 15 gradi, la media stagionale si aggira intorno ai 13°. Le mareggiate lassù hanno un’altra potenza, il sole non splende incontrastato e caldo come nel sud dello stato. I surfisti di Santa Cruz vivono l’oceano per davvero, senza filtri. Steamers Lane, spot iconico della città, passa per essere una delle onde più localizzate della California. Gente tosta e discreta, l’opposto del losangelino medio. Il Boardrider Club del North of L.A. ha base a Malibu, il quinto quartiere più ricco degli Stati Uniti d’America. Ma Pierpaolo Barzan, papà di Alberto (15enne giovane promessa della nazionale italiana) che corre col Club di Malibu, mi raccontava di un clamoroso stravolgimento: “Ultimamente l’approccio è cambiato, siamo diventati il Club più caciarone (ride, ndr). Immaginati un tifo da stadio ma con un livello di surf altissimo, a queste gare partecipano tanti ex CT e tutti i migliori juniores del paese. Anche tra i master si scannano per ottenere la supremazia cittadina”.
Per le persone di Oceanside o Santa Cruz battere gli “spocchiosi” avversari di San Clemente o Malibu è anche una questione di rivalsa sociale. Non c’è dubbio però che come abbiamo scritto e detto più volte tramite i canali di Tuttologic Surf, il surf sia uno sport da ricchi. Una fonte anonima ci ha raccontato ad esempio che alcuni membri della famiglia Walmart (267 miliardi di patrimonio secondo Forbes) pagherebbero un istruttore di surf 1000 dollari al giorno per essere sempre
pronto a portarli in mare. Non importa che poi questo accada o meno, il nostro nuovo eroe è perennemente in standby, on hold, con in testa il miglior piano possibile per far divertire i signori Walmart tra le onde. Racconti di intrecci tra surf e potere che meriterebbero una serie Netflix, ma ormai è chiaro che l’istruttore di surf è il maestro di golf o di tennis del futuro. E in tutto ciò, come se la passa l’industria? Io e Tommaso siamo andati in California proprio per capire che aria tira e devo ammettere che stiamo vivendo una fase abbastanza delicata.
All that glitters ain’t gold. Così cantava Prince.
Il surf è uno sport da ricchi in cui però non girano soldi: che paradosso. Chi tiene botta vende servizi, non prodotti. Il turismo del surf continua a crescere, i marchi di attrezzatura invece soffrono. Complice anche la pioggia, siamo entrati in una decina di mega surf store da far venire l’acquolina in bocca. Non ho mai visto così tante tavole. Trecento, quattrocento, più di cinquecento tavole. Ashton Pickle, shaper artigiano emergente di Ah Vessels, ci diceva che presto chi produce in California
sarà costretto ad alzare i prezzi per sopravvivere. Dopo aver visitato la fabbrica di Lost, ho maturato l’idea che il futuro sarà degli artigiani che costruiscono tavole a mano rifiutandosi di scalare.
Matt Parker di Album è un modello da seguire, anche se molti (Ashton compreso) dicono che i bilanci della sua compagnia siano perennemente in rosso. È innegabile però che Album sia tra i pochissimi produttori al mondo a potersi permettere di vendere uno shortboard a partire da 1100 dollari.
Tornando a Lost, sono rimasto negativamente impressionato dalla disorganizzazione
del magazzino: una muraglia di scaffali e scaffali di tavole impilate senza un senso logico, riconoscibili soltanto tramite una specie di post-it grossolanamente appiccicato al rail. Io sposo appieno il postulato secondo cui il surf business debba essere in mano ai surfisti, ma spero sinceramente che le nuove generazioni alla passione per il surf sappiano abbinare anche le competenze richieste per far progredire un business così complesso.
Off the lip, mba, barrel ed excel: perché il surf è una cosa seria. Ho aperto questa storia con le funeste minacce di morte scritte nel depliant della West Coast Baptist Church, perciò per contrasto voglio chiudere con il più bel ricordo di questo viaggio in California. Il mio 3 febbraio a Rincon, “the queen of the coast”, insieme a J-Bay una delle destre più lunghe e divertenti sulla faccia della terra. Previsione incerta, pareri discordanti: “Io non mi muovo mai da San Clemente perché attraversare Los Angeles è un inferno”, dichiara Matt Parker, mente di Album. L’entusiasta Ashton Pickle ci dà speranza: “Secondo me Rincon oggi lavora, se potessi verrei a rischiarmela con voi”. Sarà che nelle sue vene scorre sangue italiano, ma Ash ci gasa. Ci imbarchiamo per un viaggio attraverso il traffico di L.A. Tre ore e ci siamo. Vento forte di traverso ma l’onda c’è, riconosco la forma. Ho perso la vista guardando Conner Coffin, Mikey
February e Torren Martyn dipingere questa tela. Entro con un mistico fish quad fin appartenente a Matt Parker, che gentilmente me l’aveva lasciato da provare.
È tutto così surreale. Divido la lineup con solo sei o sette persone. Siamo tutti molto distanti perché l’onda è lunghissima. Ha piovuto molto nei giorni precedenti, il fiume che attraversa la spiaggia butta fuori acqua fangosa, torbida, di colore marrone. Dopo il Sudafrica, la storia si ripete. Le alghe kelp contribuiscono al pensiero
della presenza di ospiti indesiderati. Non c’è tempo per farsi dei film, è pieno di onde ma ci metto un po’ a trovare quella giusta. Poi arriva lei e mi stende davanti un’autostrada di 600 metri (dato preso dall’Apple Watch) e non so quanti carve.
Tommaso è seduto in spiaggia e cattura l’attimo senza nemmeno un decimo del mio entusiasmo, che si manifesta in un’espressione da bambino felice appena metto piede in spiaggia. “Ma l’hai visto? Hai visto che onda? Io non ci credo Tommy, ho appena preso l’onda più lunga della mia vita”. Tornando a piedi in cima al point di Rincon guardo in faccia il sole che tramonta dietro le palme, verso ovest. Chiudo gli occhi, assaporo il momento e ringrazio. Non so chi, ma so per cosa. Viviamo per momenti come questo.