Nel surf come nella vita quando è in gioco un risultato gli eventi possono prendere una piega inattesa. A volte chi parte favorito non vince, capita che i più forti non performino come sarebbe lecito aspettarsi. Ho vissuto in prima persona di recente un episodio che può tornarci utile per aprire il discorso: era il 27 novembre, un mese fa, a Recco andavano in scena i Campionati Assoluti di Longobard. Alessandro Ponzanelli prende l’onda più grande del contest nella prima heat ma non supera il round, è subito fuori. Sgomento. Stessa sorte per le locali (e favorite) Giulia Di Giovanni e Stella Lauro: fuori alla prima heat.
A volte capita anche il contrario, assistiamo alle cavalcate meravigliose dei cosiddetti underdog: squadre o atleti venuti fuori dal nulla e capaci di scrivere alcune tra le pagine più belle della storia dello sport. Il Leicester del 2015-2016, la squadra italiana che ha vinto la 4×100 a Tokyo, in piccolo Morgan Cibilic, che al suo primo anno sul Championship Tour è riuscito addirittura a raggiungere le WSL Finals.
Ovviamente non c’è nulla di male se i favoriti non gareggiano all’altezza delle aspettative. Anzi, per l’esperienza agonistica che ho maturato negli anni (non solo nel surf ma anche come rugbista e judoka), posso affermare che le delusioni personali sono all’ordine del giorno. Guardiamo anche l’altra faccia della medaglia. A me per esempio ha sempre colpito la straordinaria attitudine della Brazilian Storm: affamati, determinati e vincenti. Qual è il loro segreto? Che cosa permette ad atleti come Italo Ferreira di minimizzare la distanza tra intenzione e risultato?
Non so darvi una risposta così, su due piedi. Se avessi la soluzione l’avrei sperimentata su di me limitando i flop che derivano dall’ansia da prestazione. Oggi però, invece di indagare su aspetti come la tecnica o la prestanza fisica, ci concentreremo sulla parte emotiva. Con questo proposito, cercherò di dare una spiegazione più scientifica, appoggiandomi a vari studi di psicologia, e una più astratta, facendo riferimento a concetti di filosofia.
Psicologia dello sport: come l’ansia da prestazione limita la performance
Secondo quanto riportato sulla rivista Psychology Today dal Professor Jim Taylor dell’Università di San Francisco, le emozioni sono all’apice di quella che viene definita la Prime Sport Pyramid. Risalendo quest’ultima, infatti, noteremo come la motivazione, la fiducia, l’intensità e la concentrazione siano solamente aspetti secondari se consideriamo l’impatto che la parte emotiva ha sulla performance.
Le emozioni negative, oltre che a influenzarci mentalmente, hanno una ricaduta sul nostro fisico, andando ad attivare un processo da cui può capitare di non riuscire a tornare più indietro. Rabbia e frustrazione entrano in gioco causandoci tensione nei muscoli, difficoltà respiratorie e una perdita di coordinazione. Nel surf in particolare, questo si nota immediatamente dal feeling e dal controllo della tavola che un competitor ha in quel momento: gambe rigide e tremolanti influenzano la rapidità e la stabilità della tavola, impedendogli di eseguire manovre in maniera pulita e controllata.
In casi estremi si può arrivare a stadi in cui vengono amplificate addirittura le sensazioni di spossatezza e fatica. Nel momento in cui disperazione e impotenza prendono il sopravvento, l’intensità dei nostri movimenti potrebbe ridursi drasticamente e non avremmo più le capacità fisiche per affrontare una performance. Tornando sul lato puramente mentale, bisogna stare attenti a lasciarsi sopraffare da questi stati d’animo. Se questo tipo di emozioni dovessero intensificarsi, a lungo termine sposterebbero la nostra attenzione solo sugli aspetti negativi della performance, privandoci poi dell’obiettivo di tutte le nostre ore di sudore e frustrazione: il divertimento.
Occhio a non far sì che tutta questa negatività diventi abitudine. In questo caso saremmo condannati a reagire a situazioni di competizione in modo automatico, con una risposta emotiva esagerata rispetto al contesto. È quello che vediamo spesso sui grandi schermi: atleti che perdono le staffe, espulsi dal gioco, riversano tutta la loro rabbia in reazioni esagerate e auto-distruttive, sia per sé stessi che per la squadra.
La filosofia stoica era lo yoga degli antichi greci
Abbiamo individuato il problema e le cause. Adesso cerchiamo una soluzione. Può accompagnarci in questo viaggio il pensiero stoico, una corrente filosofica e spirituale dal forte orientamento etico e ottimista fondata nel 300 a.C. in Grecia.
Al giorno d’oggi, il termine “stoico” è comunemente associato all’apatia, al non provare emozioni: in realtà è molto di più. Nell’Antica Grecia, gli stoici erano promotori di un vero e proprio stile di vita nel tentativo di vivere appieno l’unica vita che abbiamo, godendone in lungo e in largo. Lo stoicismo non vuole mettere fine ai problemi e alle emozioni disturbanti, piuttosto l’intento di questa filosofia è di riuscire a vivere bene nonostante le difficoltà e il dolore.
Tutto ciò parte dal presupposto secondo cui il momento presente è gestibile nel suo evolversi. Ne consegue che i problemi veri siano identificabili in quelle che solitamente chiamiamo “preoccupazioni”, per cui soffriremmo più per la nostra immaginazione (tra le cause dell’ansia da prestazione) che per la realtà dei fatti. E se, traslato in ambito sportivo, la nostra ansia da prestazione fosse solo frutto della nostra fantasia pessimistica? Molti problemi, anche nella vita quotidiana, sarebbero facilmente risolvibili: basterebbe convincere l’inconscio che tutto andrà per il meglio o semplicemente sarebbe necessario non farsi aspettative sul futuro.
Il ‘nemico’ degli stoici, quindi, non erano altro che le preoccupazioni: la paura del futuro, la gelosia, il desiderare qualcosa che non si ha. Per una persona aderente al pensiero stoico è importante concentrare le proprie energie sulle informazioni e sugli stimoli realmente utili e costruttivi. Tutto attraverso una ricerca della serenità e un’attività di autoanalisi, che permettono di dare più spazio all’auto-riflessione. Essere ‘stoici’ non vuol dire nulla se non raggiungere uno stato di consapevolezza avanzata e matura rispetto a sé stessi e a ciò che ci circonda.
Questo discorso è cruciale perché la filosofia stoica proponeva pratiche molto vicine a quelle attività che oggi facciamo per prenderci cura di noi stessi, sia fisicamente sia mentalmente: meditazione, yoga e respirazione (molto diffuse tra le schede di allenamento di surfisti e non). Ovviamente il mio obiettivo non è quello di convincervi che quanto detto dagli stoici sia la verità, ma quest’ultima conclusione può essere un punto di partenza. ‘Stoicizzarsi’ significherebbe affrontare le situazioni, sviscerare i problemi e cercare di cambiarle oppure di lasciarle così come sono. Avere una consapevolezza e una conoscenza di sé stessi e degli altri più profonda porterebbe senz’altro dei benefici anche nella gestione dell’ansia da prestazione.