Guadagnare col surf è un’impresa. Prima di lanciarmi in Tuttologic e Surfsuit ero ancora più sfiduciato, tipicamente realista. Fantasticando durante qualche viaggio su quanto sarebbe stato bello vivere così, tra una birra e l’altra ripetevo agli amici: “Dai ragazzi ma come si può pensare di costruirsi una carriera economicamente sostenibile intorno al surf? Se non apri una scuola oppure organizzi dei surfcamp, sei praticamente fottuto in partenza”. E poi è andata diversamente, perché il destino sa essere beffardo ma a volte ti bacia in fronte. Alcuni di quegli amici ancora me lo rinfacciano, giustamente: “Stai sempre a lamentarti, sei il solito brontolone”.
Stab ha pubblicato i risultati di alcune ricerche molto interessanti. Proprio perché la surfing industry genera un giro d’affari relativamente piccolo (comparato ad altri settori di business), è raro poter mettere le mani su report aggiornati e completi. Nessuno ad esempio sa bene quante persone al mondo pratichino il surf da onda. La International Surfing Association fa una stima di 35 milioni, l’americana “Sport and Fitness Industry Association” dice che nel 2021 negli Stati Uniti i praticanti erano 3.5 milioni, contro i 2.5 milioni del 2010. È evidente che qualcosa non quadra: se è vero – com’è vero – che gli Stati Uniti sono il paese con più surfisti al mondo, com’è possibile che rappresentino soltanto il 10% del dato complessivo? Qualcuno esagera o sminuisce.
Sono comunque tutti d’accordo con la Surfing Industry Manufacturers Association quando scrive che il numero dei praticanti è in rapida ascesa. Dal 2019 al 2021, con anche la spinta del covid, i surfisti nel mondo sono aumentati del 16.9%. Attenzione all’eccezione fatta per “le persone che vanno in mare 8+ volte l’anno”, che nello stesso biennio sono cresciute del 35.6%. “Ecco perché nel mio homespot trovo sempre facce nuove”, eh già: puoi dirlo forte.
Il problema per chi fa lavori incentrati sul surf è che questo aumento di praticanti non è corrisposto all’aumento dei fatturati, soprattutto per le aziende che fabbricano prodotti. Il comparto di abbigliamento ed accessori per il surf vale 1.2 miliardi di dollari. Per un termine di paragone, vi diciamo che nel 2019 l’abbigliamento per ciclismo aveva un giro d’affari pari a 5.49 miliardi. La valutazione del mercato di “surfing equipment” sale a 3.9 miliardi di dollari, intendendo per “surfing equipment” tavole, mute, leash, pad, paraffina e via dicendo.
E adesso, rullo di tamburi, la portata principale del banchetto: il turismo del surf. Abbiamo un dato molto vago ma sufficiente anche nell’ipotesi peggiore a far capire chi è il vero campione della surfing industry: la spesa totale per i viaggi alla ricerca di onde oscilla tra i 31.5 ed i 64.9 miliardi per anno. Avete capito? Da otto a sedici volte in più rispetto alla vendita di materiale tecnico per il surf. Una conferma di quello che nel nostro lavoro di agenzia vediamo nel microsistema italiano, dove chi produce tavole fa una fatica boia e se non ha un proprio laboratorio / fabbrica rischia di doversi accontentare di margini di 100, 150€ a tavola. D’altra parte proliferano scuole di surf e tour operator, che stanno andando incontro ad una strutturazione dell’offerta che dovrà evolvere fino a raggiungere (speriamo) gli standard del turismo di montagna. Questa è la sfida.
I marchi di settore come Rip Curl, Vissla, Al Merrick o FCS per dirne alcuni affrontano annate altalenanti e quando crescono lo fanno perché trovano alcune categorie di prodotto meno core, ma più redditizie. Un esempio su tutti: i surfskate. Perché tutti fanno surfskate? Perché i margini sono molto più alti che sulle tavole da surf, quindi realtà come HLC (leggasi Yow) hanno avuto un aumento di fatturato da 6 a 30 milioni durante il covid. Discorso simile per i soft top, che costano molto meno di una tavola di poliuretano o in epoxy. Infatti esistono sul mercato tavole in gomma e plastica brandizzate da chiunque: potete trovare la linea di Euroglass brandizzata Leonardo Fioravanti, la serie di Gabriel Medina, di John John Florence con Pyzel o del precursore Mick Fanning, che ha sempre avuto un gran fiuto per gli affari.
Essere troppo core nel surf business ti penalizza. Alla fine i conti non tornano, siamo tutti costretti a doverci un po’ sporcare le mani per sopravvivere. È la dura verità: siate comprensivi. Investire in progetti di puro surf rimane possibile soltanto se siamo scesi a compromessi in altre situazioni, perché nessuna grande azienda extra settore comprerà soltanto tubi, off the lip e curve a 200 all’ora. E quelle di settore non hanno budget da investire: avete letto l’ultima notizia da prima pagina?
Venerdì abbiamo saputo che il Quiksilver Pro France, dopo esser stato declassato da tappa del Championship Tour a tappa delle Challenger Series, quest’anno non si farà. Un duro colpo per Hossegor e per tutto il surf europeo. La WSL non lo dice e ci gira attorno, parlando di “scelta consensuale con Quiksilver”, ma la verità è che non ci sono i soldi. Come dichiarato dal Ceo Erik Logan in politichese: “Non abbiamo sufficiente supporto per rendere l’evento finanziariamente sostenibile”. Finito, caput. Organizzare una gara di surf è figo ma non è sostenibile, nemmeno ai massimi livelli.
Dall’11 Agosto potremo farci un’idea più definita sul tema con “How Surfers get paid”, una nuova serie prodotta da Stab che racconta dinamiche e retroscena della surfing industry. Saranno direttamente gli atleti, personaggi come Jordy Smith o Dane Reynolds, a svelare aneddoti su contratti e relazioni con gli sponsor. Nei primi podcast chiedevo sempre all’intervistato: “Riesci a vivere di surf? Si può?”. Vivere di surf è un sogno per chiunque, capire se sia realmente possibile è interessante.
Al momento sappiamo con certezza soltanto che per una persona appassionata e minimamente competente il modo più facile per vivere di surf è aprire una scuola oppure organizzare esperienze di viaggio.